Società

Servizi Sociali, alias SS

altSS o Servizi Sociali?

Venerdì 30 ottobre 2009

Sono a casa da martedì scorso dopo un ricovero attivante ma utilissimo in una clinica in Veneto. Ho tutte le carte in regola per (ri)cominciare a vivere bene. Bene non significa senza malattia. Anzi, la mia auto-consapevolezza è cresciuta. La terapia sembra funzionare da un mesetto. Il confronto con gli altri ricoverati mi ha fatto capire quanto io sia diversa da loro: ho lasciato l'universo dei borderline per entrare nello spazio tempo dei bipo. Non so ancora dire esattamente cosa sia cambiato, dentro di me. E' stato un processo lento. Ora ne ho solo preso atto. Forse non sono in grado di parlare del cambiamento perché la terapia maschera un po' tutto. Comunque, a livello cognitivo, il cambiamento c'è stato eccome.

Vado a Milano dal mio psichiatra. Sto indiscutibilmente meglio. Stendiamo il piano d'azione: ora ho bisogno dell'aiuto sei Servizi Sociali, devo trovare un lavoro e qualche aiuto economico per arrivare al primo stipendio. In fondo, nulla sembra troppo difficile.

Lunedì 2 novembre 2009

Come deciso con il mio psichiatra, vado al centro di salute mentale e prendo appuntamento con la psichiatra che si occupa della zona in cui abito. Rimini-Milano-Rimini sono 8 ore in treno, ho bisogno di un riferimento locale per far fronte alle crisi e avere i medicinali. Strana sensazione: in una relazione in cui transfert e controtransfert hanno un ruolo così importante, questo criterio geografico per l'assegnazione di uno psichiatra al paziente mi sembra pazzesco. (una pazza può dire “pazzesco”? Beh io lo dico). Ma sono relativamente fortunata: mi capita (sigh...) una psichiatrina dolce, la sensazione a pelle è più che discreta. L'appuntamento è per quello stesso pomeriggio. Nonostante i 10 comandamenti della terapia cognitivo-comportamentale, le mie aspettative sono necessariamente elevate. La psichiatrina mi accoglie con un sorriso tenero. Peccato che dopo 5 frasi capisco che è troppo debole per me. Non è in grado di contenere la forza e l'irruenza del mio carattere, la mia grandiosa capacità di star male fino in fondo. Pronuncio la parola “suicidio” mentre parliamo, e la vedo arrossire come se avessi bestemmiato in chiesa. OK, mi arrendo all'evidenza, il suicidio è un argomento troppo spesso per lei. Pronuncio la parola “crisi” e mi dice in fretta e furia “Beh, speriamo che in crisi non ci vada”. Mi domando perché io debba accettare di parlare con una persona che non mi saprebbe mai aiutare nell'emergenza. Ma non si può avere tutto. A volte, non si può avere proprio niente. Accettazione fatalistica del presente? Un po' sì, dopo 3 lustri di cure si diventa anche parzialmente fatalisti. Se non altro mi procuro il piano terapeutico per i farmaci. E il nome della mia assistente sociale di riferimento (vige sempre il criterio geografico).

Ormai ho finito tutti i soldi. Ma non è un modo di dire. Non posso più comprare nulla. Nemmeno le sigarette. I miei 2 cani e 2 gatti sono ancora a posto per un po': alla loro pappa avevo ovviamente pensato in tempo. Ma nulla dura in eterno. E ciò mi spaventa. In queste condizioni, fino a 3 anni fa mi sarei suicidata. Ora invece resisto, come un piccolo guerriero che combatte per un ideale. Il mio ideale si chiama vita.

Chiamo l'assistente sociale. Nessuna risposta. Chiamo e richiamo. Niente. Chiamo fino alle 8 di sera, ma senza ottenere risposta. Nessuno alza la cornetta, dall'altra parte. Decido di non scoraggiarmi. Non posso permettermelo. Sono sola con me stessa, se mollo io è veramente la fine.

 

Martedì 3 novembre 2009.

Seconda puntata: chiamo l'assistente sociale. Mi dicono di richiamare nel pomeriggio. Lo faccio, e finalmente la trovo. Brevi cenni sulla situazione: non ho più soldi e ho bisogno di un lavoro. Ho il dono di saper riassumere. Inoltre, mi serve la documentazione sulla mia invalidità. Scusi se mi permetto ma avrei bisogno di parlarle urgentemente, non so più come tirare avanti. Risposta: le fisso un appuntamento. Perfetto. Io penso a domani, dopodomani... Viene fuori con lunedì 16 novembre. Eh ma è un po' tanto in là, prima non potrebbe? Risposta: NO. Alla faccia dell'urgenza. Penso: va là che se un giorno ti troverai nella mia situazione, capirai il concetto di urgenza.

 

Lunedì 1alt6 novembre 2009.

E' il grande giorno. Non si tratta di problemi insormontabili: qualche soldo e un lavoro.

La vedo. Sensazione a pelle negativa. Ma l'apparenza, talvolta, inganna. Andiamo nel suo studio. Dopo 3 parole le suona il telefono e mi fa uscire dalla stanza (Sa, devo fare dei nomi...). Da fuori si sente tutto e parlano di sussidi dati ad altri utenti. Quasi quasi ciò mi conforta.

Rientro dopo quasi un quarto d'ora. Ho già le lacrime agli occhi, tengo duro ma la mia situazione mi sta corrodendo. Lei mi dice che per l'invalidità “proverà FORSE a contattare il CSM del Piemonte che ha tutta la documentazione”. Ma come FORSE? Ma come PROVERO'? Boh. Forse non capisco. Spero di non aver capito, sarà il suo modo di spiegarsi.

Veniamo a problemi più concreti. Non ho più soldi, signora. E mi serve un lavoro. Un qualunque lavoro. Ahhhhh, ma cosa crede, non siamo mica una banca noi! E per il lavoro vada al centro per l'impiego! Se non ha da mangiare vada alla Caritas, che esiste apposta! (sì ma almeno NON URLI).

La guardo. Mi guarda. Le lacrime aumentano. Prendo tempo perché se parlassi la offenderei pesantemente. Ancora non lo so, ma scoprirò dopo qualche giorno che anche per andare alla Caritas ci vogliono dei buoni pasto rilasciati dai servizi sociali. Senta, io non pretendo niente. Le sto dicendo che non so più dove sbattere la testa e le sto chiedendo in che modo può aiutarmi. Ahhhhh, ma ci risiamo, le ripeto che non siamo una banca! Senta un po': ma io come faccio ad andare avanti? Devo suicidarmi perché sono senza soldi e senza lavoro? Ahhhhhhh, ma faccia come crede, io qua quello che posso fare è EVENTUALMENTE recuperarle i documenti dell'invalidità! Se lei non ha soldi non è mica un problema nostro! Qua tutti ci chiedono soldi, soldi, soldi... (SI' MA SE NON ALTRO NON URLI, SONO BIPOLARE E NON SORDA!)

Non le dico che conosco personalmente persone a cui i soldi li hanno dati. Non le dico che a queste stesse persone so bene che hanno dato la possibilità di mangiare alla mensa dell'ospedale con un blocchetto di buoni pasto. Non le dico che una sua paziente le ha telefonato in mia casuale presenza e che, sempre in mia presenza, hanno quantificato un sussidio per l'affitto. Non le dico niente perché sono nauseata e distrutta. Servizi Sociali, SS. L'unica cosa che riesco a chiederle è in cosa consista il suo lavoro. Mi fissa immobile senza rispondere. Lei non sa che io so bene quali siano i compiti di un'assistente sociale. Lei non sa che in Piemonte feci 38 giorni di sciopero della fame e poi i sussidi mi vennero dati.

Le chiedo se ci rivediamo. Mi dice che sarebbe inutile. OK. Cerco di stare calma ma vorrei gridare al mondo che così non va bene. Aiuto, aiuto, aiuto... Ti addestrano a chiedere aiuto, e poi nessuno te lo dà. Cosa chiediamo a fare? Mi sento un pappagallino addestrato a pronunciare la parola “Aiuto”.

Ho gli occhi impestati di lacrime. Gli infermieri mi convincono che è meglio che io parli con lo psichiatra di guardia. Accetto. Sarebbe un'urgenza, ma il gringo si fa attendere più di un'ora. Continuo a piangere ma solo per un'amarezza profonda. Quello che mi fa star male è la realtà, non la depressione. Parlo con il gringo. E si ripete un copione simile al precedente. L'unica differenza è che lo psichiatra sa se non altro utilizzare l'italiano come Dio comanda. Circa. Suggerimento del gringo: ricovero in reparto. Ma a cosa serve, dottore? Non è che durante il ricovero mi crescano i soldi sul conto. Beh, ma lei inizi a venire in reparto. Penso a una caterva di parolacce da tirargli contro per la sua cecità. Per la sua rigidità. Per la sua insensibilità. Cosa mi farebbero in reparto? Mah, stordiamola così non rompe più le palle. Eh eh eh, questo è un deja vu. Nonnnonnno. Con me non funziona. Che ci vada lui in reparto, se crede. Glielo dico chiaro e tondo: dottore, il mio problema non è la depressione. O meglio: se sono depressa è solo perché non so più come tirare avanti economicamente. E io cosa posso farci?, mi dice, come se fossi entrata da un fruttivendolo a comprare delle scarpe. Squallido.

 Eppure, questa è una storia a lieto fine. Beh, la fine ancora non c'è, ma ho trovato un'amica. Un'amica che non mi aiuta con le parole quando con le parole non ci compri un fico secco. Un'amica che capisce e che mi aiuta sul serio. E un amico che, nel suo piccolo, fa quello che può.

Questo mi ha riportata ad esistere. Sono tornata in grado di combattere. Di provarci, se non altro. Di usare tutte le mie energie per resistere. Per farcela. E se tutto questo, come spero, diventerà presto il ricordo di un periodo buio, gli incompetenti dovranno ascoltare la mia voce che, ora tremula e insicura, risuonerà allora decisa come la musica potente di un'orchestra. Il mio J'accuse non sarà risolutivo. Non cambierà i servizi sociali. Ma ha tutto il diritto di essere scagliato contro chi non ha capito niente del proprio lavoro e della sofferenza umana.