Le nostre storie

Una storia quasi comune

 

Ciao, Amici.

E' brutto usare le mie diagnosi come biglietto da visita, ma NOI sappiamo bene che hanno solo un valore tecnico. Dunque mi chiamo Stefania, ho 37 anni e mi curo da 12 anni. Diagnosi ricevute: depressione maggiore e disturbo borderline della personalità. E tuttavia (non lo dico per invidia, eh eh!) forse sto arrivando anche alla diagnosi di depressione bipolare. Mi permetto questa introduzione perchè nel NOSTRO sito possiamo parlaci senza doverci nascondere.

Tutto cominciò, ahimè, con un abuso sessuale durato 10 anni. Avevo 3 anni quando iniziò, e 12 quando finì. Rimossi tutto. E tutto tornò a galla alla fine del 1997. Ero in Olanda per il mio Ph.D. in Fisica. Crollai. In stato di PTSD venni ricoverata. Per riuscire ad accettare psichiatri, pillole e malattie cominciai a divorare manuali di psichiatria. Poi, dovetti necessariamente tornare in Italia perchè la psicoterapia non era concepibile in inglese. Facevo fatica a stare in piedi, ma nel gennaio del 1998 presi in qualche modo un aereo e tornai.

La mia famiglia mi aveva già abbandonata dopo il liceo perchè "ero strana". Tuttavia mi ospitarono. Ero ormai un'estranea, ospite di estranei. Mia madre mi credette. E, forse, distrussi anche lei. Mio padre mi credette solo molto più tardi: il 29 marzo, infatti, il pedofilo confessò. Stetti in SPDC a Pavia per mesi. Come morta. O, altre volte, con scatti comportamentali che fecero inizialmente pensare che fossi schizofrenica. Gli psichiatri mi credettero subito. Ma dovevano cercare di ricostruirmi qualcosa dentro.

Il 13 giugno 1998, dopo che gli ebbi notificato la mia ferma intenzione di portarlo in tribunale, il pedofilo (ex migliore amico di mio padre) si suicidò. Purtroppo aveva già distrutto la mia vita. Non tornai mai più alla Fisica, che era stata la mia unica ragion di vita. Non recuperai più nemmeno metà della vita che avevo prima, quando i meccanismi di difesa tenevano il mio vissuto arginato in un cassetto interiore di cui sembrava si fosse persa la chiave.

 

Da allora ho tirato a sopravvivere. Suicidi, ricoveri, autolesionismo, periodi di anoressia, crisi, fasi maniacali... E ricoveri, tanti, tantissimi ricoveri. Sono ormai una manciata di cocci che non si possono ricomporre. Uno specchio frantumato.

 

Mi sono sempre curata, e a due psichiatri devo la mia vita e la mia capacità di resistere nel mondo anche se tutto quello che ero, che sognavo e che avevo costruito è andato perduto. Tre anni fa cominciai a godermi i frutti di un decennio di cure. Stavo meglio. Parecchio meglio. Mi trasferii a Rimini per togliermi quella lettera scarlatta da "matta" che mi avevano appiccicato sulla fronte in Piemonte e in Lombardia. Cambiai tutto. Stavo con un ragazzo da 6 anni. Una bella relazione. Avremmo dovuto vivere insieme. L'anno scorso mi mollò, ed ebbi una ricaduta abissale. Dopo 7 anni finiva anche l'amore.

 

L'anno scorso ho cercato di andare avanti. Facevo l'insegnante. Mi sono nascosta dietro un malsano iperlavoro per non pensare. Nessun ricovero. Credevo di farcela. Ma la crisi era lì lì per scoppiare. Ed ora è scoppiata.

 

 

Pochi giorno fa ho tentato di metter fine a questa farsa chiamata vita. E, certa di raccontarvi cose da cui anche voi siete passati, voglio condividere quell'esperienza. Ho inviato quanto segue anche al quotidiano di Rimini. Dopo avere letto, non vi stupirete di sapere che non ho ottenuto nessuna risposta. 

 

 

31 agosto 2009 – Rimini


Una crisi peggiore delle altre. E' notte. Ed è di nuovo disperazione. Mi taglio le vene con quella ferocia che solo la depressione sa iniettarti dentro. Ma morire non è facile come sembra. Piango sangue e lacrime, ma la mia autodistruzione si ferma. Allora penso. Penso per ore, a tante cose, a tutto quello che ho imparato negli anni più cupi della mia vita... Non è la prima volta, ma questa volta, al mattino, scelgo di chiedere aiuto. Mi sembra di sentire riecheggiare le parole di tanti medici che mi hanno curata: “Chiedi aiuto, chiedi aiuto, noi ci siamo, siamo qui per aiutarti...”. Mi fascio i polsi in qualche modo, goffo ma efficace, e, un po' stordita per il sangue perso e per questo mio pericoloso equilibrismo tra vita e morte, parto in motore per l'Infermi. In motore, perché non me la sento di dire agli “amici” quello che ho fatto: sentirmi dare della cretina è l'ultima cosa che mi serve, per il momento. Gli “amici” non hanno i mezzi per capire, meglio rivolgersi agli specialisti.

So già quali saranno le tappe di un iter che ho percorso altre volte: prima mi cuciranno, poi parlerò con uno psichiatra. Stavolta potrebbero anche ricoverarmi: ormai ho esaurito tutte le cartucce a mia disposizione, ho giocato tutti i jolly, non ho più nessun asso nella manica. Provo ad invertire l'ordine degli addendi, certa che il risultato non cambierà se non in meglio: ho un disperato bisogno di parlare con uno psichiatra, di buttar fuori anche solo un milionesimo di quel magma incandescente che mi sta bruciando l'interno. Quindi busso in SPDC (servizio psichiatrico di diagnosi e cura); una gentilissima infermiera mi dice però che, in sostanza, gli addendi non si possono invertire. Lo psichiatra può ricevermi solo al pronto soccorso, dove verrà regolarmente chiamato per una consulenza. Una sottile patina di delusione comincia a velarmi il cuore: il suicida è una persona che vuole abbandonare il “sistema”, e per ricevere aiuto gli chiedono di adeguarsi al sistema.

Penso che farei prima a suicidarmi, vorrei scoppiare a piangere e gridare all'infermiera che non ce la faccio più, che non ho più voglia di vivere, che sono stufa di tutto e di tutti... Ma OK, per fortuna sono calmissima, sono calma come un cimitero deserto. In dieci minuti sono all'accettazione del PS e un'infermiera mi cambia le bende. Piango compuntamente, portando con dignità un dolore che mi sta squarciando dalla testa ai piedi. Ma sono grata a chi mi sta aiutando e a chi mi aiuterà. Niente punti, per il momento; lo trovo strano ma non voglio rubare il mestiere agli altri, quindi taccio. Mi parcheggiano in ala verde con un codice verde. Lo psichiatra è già al pronto soccorso per un'altra consulenza, come già mi avevano detto in SPDC; lo chiamano al telefono dicendo che un'altra persona ha bisogno di lui. Mi tranquillizzano dicendomi che l'attesa sarà breve. Sento scoccare il mezzogiorno.

Le vene mi pulsano sotto bende troppo sottili per assorbire il mio sangue; grosse macchie rosse già colorano i miei polsi fasciati e sembrano gridare a tutti gli utenti dell'ala verde, a tutti i passanti, a tutto il personale dell'ospedale qual è la mia malattia. Mi guarda l'omino della macchinetta del caffè, mi guarda la signora delle pulizie, mi fissano i bambini presenti, normalmente curiosi, ed i loro genitori, con quella morbosa avidità di disgrazie altrui che i mass media coltivano orgogliosi. La privacy? Non mi importa, ma direi che la privacy non c'è.

Il codice verde mi sembra sottostimare la relativa urgenza della situazione (il sangue cola e le lacrime zampillano, continuo a pensare di scappar via per farla finita), ma mi hanno detto che lo psichiatra arriverà subito, quindi aspetto. Aspetto, ma dopo un'ora aspetto ancora, la mia testa intasata da pensieri vertiginosi che chiedono di diventare parole raccontate a qualcuno. Provo timidamente a chiedere all'infermiera del triage, la stessa che mi ha medicata. Lo psichiatra sta sempre per arrivare, mi dice lei con la faccia più convinta del mondo. Detesto fare scenate, dare nell'occhio, creare disturbo, chiedere ciò che magari non mi spetta... Il sangue ormai straripa dalle bende, penso che se non altro potrebbero cucirmi mentre aspetto lo psichiatra; ma pur pensandolo taccio, sempre per rispetto all'altrui professionalità. Mi imbottisco i polsi con la carta che trovo in bagno e torno a sedermi e ad aspettare, mentre di tanto in tanto scoppio a piangere trattenendo i singhiozzi per non creare disagio alle altre persone presenti. Nel frattempo, la sala d'attesa dell'ala verde si è svuotata e riempita tre o quattro volte. Ho visto decine di codici verdi e codici bianchi: tutti già visitati e mandati a casa.

Il tempo passa. La pazienza non mi manca, ma tra lacrime e sangue davvero non ce la faccio più: controllo l'orologio, ormai aspetto da poco più di 2 ore, e credo di aver diritto almeno ad avere i punti. L'infermiera al triage non è più la stessa, così mi cerca sul computer e... sorpresa, nessuno mi ha chiamata ma risulto dimessa.

Dimessa! E lo psichiatra che era stato avvertito? Ci si può dimenticare di una che si è tagliata le vene? Dimessa? E tutti gli infermieri che mi sono passati davanti in quelle due ore? Cosa sta a fare al pronto soccorso una persona con i polsi tagliati?

Dico all'infermiera che la situazione è incredibile e che se non mi chiama subito un medico vado a raccontare questa storia a un altro PS. Non so neppure se sia suo dovere, ma a questo punto, se non altro per tenermi buona, l'infermiera mi fa chiamare immediatamente. E mi ricuciono. Il medico è simpatico, l'infermiera che lo assiste pure, ma stranamente nessuno dei due mi chiede la cosa più scontata e forse più bella che speravo di sentirmi chiedere: quel semplice “Come stai?” che, in certe circostanze, vale quanto un antidepressivo.

20 punti di sutura, bendatura, antitetanica, e si ripropone l'argomento dello psichiatra. Ormai sono un po' disillusa circa la reale possibilità di ottenere aiuto a livello di ascolto, dopo essere stata dimenticata in una sala d'attesa per due ore. Comunque è prassi chiamarlo, e lo chiamiamo. Ore 14.30: dall'SPDC rispondono che è il momento delle consegne, e che lo psichiatra sarà da me in un quarto d'ora.

 

Alle ore 16, ancora nessuna ombra dello psichiatra.

 

Non voglio andarmene disonestamente, senza avvertire il medico che mi ha cucita e l'infermiera che mi ha medicata; busso al loro ambulatorio e notifico tranquillamente la mia decisione di tornarmene a casa. A nessuno interessa sapere se la mia ideazione suicida sia ancora presente..
Ed in effetti, questo disinteresse non fa che acuirla.

Ma sono calma, e nessuno ha nulla da obiettare. Provano comunque a richiamare il reparto. Nuova risposta: lo psichiatra sta arrivando, dove quel gerundio esprime, così dicono dalla psichiatria, un cammino in fieri, una realtà al tempo presente. Per scendere le scale ci vogliono diciamo 2 minuti. Ok, ne aspetto altri 10. Ovviamente non compare nessuno. Saluto e me ne vado.
Seccata, delusa, disgustata. Stanca di essere presa in giro. Stanca di essere paziente. Ancora più stufa di tutto e di tutti.

Riprendo il motore e mi fermo un attimo in SPDC. Suono il campanello e chiedo di parlare con il responsabile del reparto. Mi chiedono chi sono; scandisco il mio nome, che evidentemente non suona sinistro poiché una infermiera viene ad aprirmi. Premette che lei non è responsabile di niente; ribadisco che gradirei interloquire con il responsabile. “La caposala non c'è”, dice lei. “OK, chi è in questo momento il responsabile?”. Prima di ottenere risposta devo spiegarle il motivo della mia domanda: se fossi più in forma le direi che non è educazione rispondere ad una domanda con un'altra domanda, ma sono distrutta e le racconto in breve la mia giornata (ormai quasi barcollo per il sangue perso, mi gira la testa e le lenti a contatto mi si sono appannate per le lacrime). Costei inizia a buttare ogni responsabilità sui colleghi del pronto soccorso. Classica solidarietà tra colleghi.

Dice una raffica di cavolate che sarebbe stata da registrare. Mi guarda come se fossi deficiente. Come se tutti i malati psichiatrici lo fossero. Purtroppo per lei io ero là, e so bene che, checché lei ne dica, lo psichiatra è stato chiamato.
Lasciando pur perdere la primissima chiamata delle ore 12 (essendo stata dimenticata in ala verde non so cosa sia stato detto allo psichiatra che era di turno al mattino), lo psichiatra del pomeriggio è stato chiamato alle ore 14.30 e al PS non ha mai messo piede. L'infermiera dice che in reparto hanno avuto molti pazienti da dimettere. Le chiedo se secondo lei è più urgente dimettere un paziente o far consulenza a un suicida che ha 20 punti alle vene. Forse capisce che non sono deficiente, ma non lo dà a vedere.

Non ho intenzione di andarmene finché non salta fuori il responsabile. Lo so che è uno psichiatra, ma le non sa che io so. Alla fine, insomma, salta fuori che… il responsabile del reparto è... ma toh, ma sì, proprio lui, lo psichiatra. Che in quel momento esce da uno studio con un paziente (ovviamente non era affatto in viaggio verso il PS, va da sé), mi vede sulla porta del reparto con le bende ai polsi, gli occhi rossi e la faccia rigata di lacrime, e sgattaiola saggiamente via, come tutti coloro che, così diceva il Manzoni, “non sono nati con un cuor di leone”. All'infermiera non viene in mente di chiamarlo per farmici parlare. Allo psichiatra non viene in mente di chiedere all'infermiera di cosa io abbia bisogno. A me viene solo da vomitare. Me ne vado con silenziosa amarezza. L'unica che alza un po' la voce è l'infermiera, che mi borbotta dietro qualcosa sul fatto che se scrivo a qualcuno devo denunciare le colpe del PS e non dell'SPDC. Io non ho più né voglia né fiato per risponderle.

 

I personaggi di questa storia restano volutamente senza nome, così come chi la narra rimane una persona senza voce. Una persona come tante, con la prerogativa di soffrire di quella speciale malattia che tanti nominano, tutti temono, e ben pochi conoscono: la depressione. Non ha senso puntare il dito contro una o più persone.
L'unica riflessione che vale la pena fare è che in Italia, nel 2009, un depresso ha molta meno assistenza ed importanza di un turista affetto da epistassi o di un anziano stitico. E' unica, ma è una riflessione molto seria.

Poche righe di commento ad una storia che parla da sé. Se mi fossi presentata al PS grondando sangue e gridando al mondo il mio dolore, non credo che sarei stata dimenticata, non credo che avrei aspettato 2 ore per avere i punti, non credo che avrei avuto un codice verde, non credo che avrei aspettato quasi 5 ore uno psichiatra che non ho poi avuto nemmeno la fortuna di conoscere. Se, inscenando una farsa tipica di molti malati mentali, avessi cominciato a minacciare di suicidarmi davanti a tutti, ritengo che i soccorsi sarebbero stati più tempestivi e più efficaci. Bisogna fingere per ottenere aiuto? Bisogna sempre e comunque recitare come nelle fiction? Bisogna compiere gesti eclatanti per essere soccorsi? Io ho detto “Aiutatemi”, con le lacrime agli occhi e con la dignità di chi soffre come una bestia ma ha ben presente che non è l'unico ad avere dei bisogni. E' servito? Forse sì, a convincermi ancora più profondamente del fatto che chiedere aiuto non serve a niente.

 

Cito qualche frase da un comunicato dell'OMS. “Nel 2000 sono morte suicide circa un milione di persone: si calcola che il tasso globale di mortalità sia di 16 per 100 mila, con una morte ogni circa 40 secondi. Negli ultimi 45 anni il tasso di suicidio è cresciuto del 65% in tutto il mondo. Oggi il suicidio è considerato una delle tre principali cause di morte fra gli individui di età compresa tra i 15 e i 44 anni, in entrambi i sessi. Senza contare i tentati suicidi, fino a 20 volte più frequenti.

Nel 1998, il suicidio rappresentava l’1,8% del carico globale di malattia nel mondo. Si prevede che il tasso arriverà al 2,4% entro il 2020 negli ex Paesi del blocco sovietico.

Nonostante il tasso di suicidi sia sempre stato più alto fra gli anziani di sesso maschile, le percentuali sono cresciute notevolmente fra i giovani, che oggi rappresentano il gruppo a maggior rischio in un terzo dei Paesi, indipendentemente dal reddito.

Più del 90% dei casi totali di suicidio sono associati a disturbi mentali, soprattutto depressione e abuso di sostanze. Tuttavia, alla base ci sono numerosi fattori socioculturali: in generale, i suicidi si verificano specialmente in momenti di crisi socioeconomica, familiare o individuale.

Il 10 ottobre è la Giornata Mondiale della Salute Mentale. Il 5 dicembre è la Giornata Nazionale della Salute Mentale. Io e tanti altri siamo depressi anche nel corso dei rimanenti 363 giorni dell'anno. Sarebbe doveroso tenerne conto.