Bipolari famosi

Ottiero Ottieri

ottieri«Dal fascismo adolescenziale all’antifascismo il più accanito, dall’industria e dall’osservazione complice dell’esperienza operaia, al set, al jet set, alla clinica e all’amore. Voleva essere un sindacalista playboy.
Sull’industria il libro più noto è Donnarumma all’assalto.
Sul set L’impagliatore di sedie, sul jet set I divini mondani,
Sulla malattia morale L’irrealtà quotidiana e in versi, o meglio in cadenze, La corda corta.
Sull’amore, I due amori e Vi amo.

È un bipolare, vale a dire che dalla sua depressione zampillano euforie pericolose, perché scavano la fossa alla prossima, dolorississima caduta.
È un bipolare secondo Cassano, ossessivo e compulsivo.
Secondo lo psicoanalista Zapparoli, non tollera il piacere, ha bisogno della continuità della sofferenza.
Non può scrivere, vivere se non si intossica: alcol, sigarette, tè forte, caffè. Esistenza malsana.
Il suo pancreas comincia a risentirne. Che muoia presto? Sotto l’ansia permanente saltano le valvole della macchina meravigliosa. Lei ha un terrore della morte, direbbe Zapparoli, a Milano. Le allungo una buona vita, dice, a Pisa, Cassano.»...


Per leggere di lui, trovate
sul suo sito sia interviste che la biografia redatta dalla figlia.


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Anne Sexton

Anne SextonCome ti uccidi la prossima volta? Due amiche che parlano di morte.

E mettono in versi le loro tragedie. Prima di suicidarsi.
Nell'aprile del 1959 in un bar di Boston, due poetesse alle prime armi, la ventiseienne Sylvia Plath e la trentenne Anne Sexton, bevono cocktail e parlano con superficialità da salotto dei loro tentativi di suicidio.

Anne e Sylvia si confrontavano sulle comuni esperienze di ricovero, sui rispettivi tentativi di suicidio e sugli atteggiamenti personali verso l'arte.

Le due poetesse tuttavia erano caratterizzate da personalità e condizioni diverse.

Anne Sexton che, a differenza di Sylvia Plath, non soffriva marcatamente di fasi depressive, cadeva in trance per ore, si imbottiva di psicofarmaci ed era vittima di un etilismo devastante. Sylvia Plath, timida, insicura, perennemente in difficoltà economiche, Anne, invece, era una vera poetessa vamp, sempre chic, accuratissima nel trucco, vestiva di rosso e tacchi a spillo, costantemente seguita da uno staff di collaboratori, tra l'infermiera, la governante, la segretaria. Nelle sue apparizioni pubbliche, che venivano pagate a peso d'oro, arrivava sempre in ritardo, barcollante, e già si capiva il suo stato, lanciava le scarpe al pubblico a procedeva nella lettura delle sue opere con voce sensuale.
Sylvia Plath aveva provato a togliersi la vita cinque anni prima, per una forte depressione da cui era uscita dopo un lungo ricovero e tre elettroshock.

Per l'amica - che l'anno seguente avrebbe pubblicato una raccolta autobiografica intitolata "In manicomio e parziale ritorno" - i soggiorni in cliniche psichiatriche e le overdose di quelle che lei chiamava . pillole "uccidimi". stavano diventando un'abitudine. Quattro anni dopo, quando Sylvia Plath si uccise col gas del forno nella cucina della sua casa inglese, Anne Sexton ricordò quelle chiacchierate in una poesia:


"La morte di Sylvia"

Come hai potuto scivolare giù da sola nella morte
che ho desiderato così tanto e così a lungo,

la morte che tutte e due dicevamo di aver superato,

... la morte di cui parlavamo tanto, a Boston,
mentre ci scolavamo tre martini extra dry.

 

E si ricordò dell'amica nell'ottobre del '74, quando si uccise anche lei col gas: con i gas di scarico della sua macchina, visto che in America quasi tutti i forni sono elettrici.

Non è stata solo la loro fine simile a portare critici e lettori a vedere le due scrittrici come due personaggi paralleli - tutte e due americane, quasi coetanee, poetesse ma prima ancora mogli e madri di due figli, tutte e due portate a una poesia "confessional", che metteva in piazza sentimenti e argomenti mai trattati prima in versi.
Nella fama però hanno avuto un destino diverso.

 

Sylvia PlatSylvia Plath divenne famosa dopo la morte, quando uscì la raccolta di poesie "Ariel", e la sua figura tragica, simbolo dell'impossibilità di conciliare genio e vita familiare, oscurò a poco a poco Anne Sexton, che invece da viva aveva raggiunto un livello di fama inusuale per un poeta: le sue letture pubbliche erano affollatissime, i suoi libri diventavano best-seller e vincevano premi su premi, Pulitzer compreso. Aveva persino fondato un gruppo soft-rock che cantava le sue poesie.

In verita' oltre queste similitudini c'erano anche tante differenze tra le due poetesse ed amiche.

Sembra quasi che Anne Sexton abbia avuto tutto quello per cui l'amica, nei suoi diari, sembra lottare.
Diversamente dalla Plath - timida, insicura, sposata con un poeta, l'inglese Ted Hughes, e sempre in difficoltà economiche - Anne Sexton, nata in una famiglia ricca e moglie di un uomo d'affari, aveva una bellezza appariscente, un modo di fare affascinante, ed era diventata madre senza problemi.
Aveva un comportamento disinibito che le procurò una quantità di amanti (poeti, ma anche uno dei suoi psichiatri e un barbiere jugoslavo conosciuto a Roma) e l'ammirazione di paladine della liberazione sessuale come Erica Jong. Metteva tutta la sua vita nelle sue poesie, senza pudore (basta citare qualche titolo da "The complete poems": "L'aborto", "Mestruazioni a quarant'anni", "Al mio amante che torna da sua moglie").
Ma aveva anche problemi mentali molto gravi: non era solo vittima della depressione, come la Plath, ma soffriva di turbe psichiche, cadeva in trance per ore, beveva troppo e prendeva troppi psicofarmaci, spesso, per sua stessa ammissione, si comportava da pazza. Quando decise di uccidersi davvero, lo fece perché si rendeva conto di non essere autosufficiente, di essere pronta per andare definitivamente in manicomio.


La poesia di S. Plath e R. Lowell, A. Sexton venne definita confessionale, definizione con cui si pone in rilievo l'uso della scrittura quale strumento di conoscenza e di trasformazione di avvenimenti traumatici, e come elemento di connessione tra l'esperienza psichica e l'espressione poetica. Come la stessa Sexton afferma: "Ciascuno ha la capacità di mascherare gli eventi di dolore. La persona creativa non deve usare questo meccanismo. Scrivere è vita in capsule. Lo scrittore deve sentire ogni gonfiore graffiato fino al dolore in modo da conoscere le vere componenti di queste capsule".
In quegli anni Anne aveva già composto numerose poesie; nel '59 consegnò all'editore H. Miffin "Al manicomio e parziale ritorno" (To bedlam and part way back), due anni dopo pubblicò il 2° volume di "All my pretty ones".


Anne Sexton

Anne SextonLa Plath ammira moltissimo la Sexton, e le invidia il suo successo con gli uomini , ma quando Lowell mette a confronto le poesie delle due è a vantaggio della giovane Sylvia che si risolve la tenzone.
Anne è una moglie e una madre impeccabile, ma per ogni libro ha bisogno di un nuovo stimolo sessuale, e quindi di un amante.
Per Anne l'amante è sempre un sostituto paterno protettivo: nel libro "Tutti i miei cari" (1962), questo ruolo tocca all'affermato poeta James Wright, il quale, tradito dalle sue stesse pulsioni, fa una magra figura nella poesia Magia Nera (in cui è soprannominato Comfort).
Le poesie dei primi volumi sono strutturate in forme metriche regolari: Anne, non dotata in proprio di una vasta cultura, divora e assimila tutto quanto le capita a tiro.
La tematica delle poesie della Sexton è il traslato metaforico delle esperienze autoanalitiche. "Se avessi fatto tutte le cose che confesso, non avrei avuto il tempo di scrivere poesie" ammette, e quindi, pur nell'ambito estremamente biografico della poesia confessional abbiamo un ampio margine in cui contenere lo stupore per l'indubbia scabrosità dei temi trattati (che variano dalla masturbazione all'atto sessuale in tutte le sue varianti, all'onnipresente pulsione suicida).
Ha sempre maggior successo, e nel 1966 vince il premio Pulitzer con la terza raccolta"Vivi o muori" (Live or die), opera che fu scritta nel mezzo di un periodo di ricadute e ricoveri.
Ogni sua apparizione è pagata a peso d'oro.
Segue un copione prestabilito ad ogni spettacolo. Arriva dieci minuti in ritardo con la folla che già rumoreggia , ha sempre un abito rosso e mentre sale sul palco si capisce che è già sbronza. Poi getta via le scarpe (a volte colpendo qualcuno fra il pubblico) e inizia a recitare con voce sensuale i suoi versi. A quel punto c'è chi esce inorridito e chi pende dalle sue labbra. Dopo "Vivi o Muori" Anne è la poeta Pop per eccellenza. Nel 1968 forma un gruppo rock "Anne Sexton and Her Kind" .
Dal 1972 in poi Anne precipitò in uno stato di insicurezza estrema, la lotta tra il desiderio di vivere e di morire si faceva sempre più strenua. L'appello alla religione quale speranza per esorcizzare la morte si ritrova nelle ultime opere "Il libro della follia" (The Book of folly, 1972), The death notebooks ('74), The awful toward god, concluso poco prima di morire.
La tensione maniacale si acuisce: le poesie successive ("Carte di Gesù", "Angeli delle storie di sesso", "O voi lingue") divengono testimoni di una caotica e disperata ricerca di un punto di riferimento extraumano, forse non propriamente religiosa in termini ortodossi, di un Dio al contempo padre e madre, che appaghi l'insaziabile fame di amore e accolga la compassione.
L'io poetante si disintegra nel linguaggio magico effusivo dell'isteria.
Sorge con prepotenza il tema delle nozze finali con la morte.
Come Erica Jong, Anne Sexton rappresenta una autentica paladina della libertà sessuale femminile: basti pensare a componimenti come La ballata della masturbatrice solitaria. Con la Sexton si attua in poesia ciò che in narrativa si verificò con Virginia Woolf: l'emancipazione del linguaggio poetico femminile.
Anne Sexton si definì "poetessa primitiva", nessuno schermo intellettuale infatti sembrava filtrare la rappresentazione poetica, essa appariva finalizzata al recupero psicologico dell'infanzia individuale e culturale tramite l'utilizzo di ritmi infantili, della simbologia magica delle fiabe, di ritornelli da ballata.
Per Anne Sexton il bisogno di verità coincide col riesame del duro rapporto coi genitori che sembrava impedirle un processo di maturazione consapevole.
Il bisogno di raggiungere ciò che Jung chiama "individuazione", vale a dire l'affermazione del sé come esistenza autonoma, è alla base dei rapporti familiari e della esperienza onirica e visionaria, molla ispiratrice della poesia di A. Sexton. Come Edipo ostinatamente persevera nella ricerca dell'origine del proprio trauma, come Giocasta è lucidamente consapevole della tragedia che può nascerne.


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Edvard Munch

munch Il pittore, che senz'altro più di ogni altro anticipa l'espressionismo, nasce il 12 dicembre 1863 a Löten, in una fattoria norvegese, secondo di cinque figli.

Dopo la morte della madre, appena trentenne, per tubercolosi, la sorella Karen, pittrice, stimola il talento artistico del piccolo Edvard, così come delle sorelle, che realizzano i primi disegni e acquerelli.

Successivamente, anche la sorella prediletta di Munch, Sophie, muore di tubercolosi a quindici anni e questa esperienza, che toccherà il giovane Edvard nel profondo, verrà successivamente ripresa pittoricamente in diverse opere tra cui "La bambina malata" e "Morte nella stanza della malata".

Tristemente afflitto da una vita segnata dal dolore e dalle sofferenze, vuoi per le numerose malattie, che per i problemi familiari, inizia a studiare pittura. Nelle sue opere troviamo anticipati tutti i grandi temi del successivo espressionismo: dall'angoscia esistenziale alla crisi dei valori etici e religiosi, dalla solitudine umana all'incombere della morte, dalla incertezza del futuro al meccanismo disumanizzante tipico della società borghese.

La sua attività si fa intensa e inizia la collaborazione con il drammaturgo Ibsen, che proseguirà fino al 1906. In quel periodo si verifica un suo ricovero al sanatorio di Faberg per curare gli ormai cronici problemi di alcolismo.

Nell'ottobre del 1908, a Copenaghen, inizia a soffrire di allucinazioni e ha un crollo nervoso. Ricoverato, trasformerà la sua camera in atelier e successivamente per il suo talento verrà nominato "Cavaliere dell'Ordine Reale Norvegese di S. Olav".

Ancora in clinica, scrive il poema in prosa Alfa & Omega che illustra con diciotto litografie; grandi mostre di sue opere e stampe vengono organizzate a Helsinki, Trondheim, Bergen e Brema; diventa membro dell'Associazione degli artisti Mánes a Praga. Inizia a lavorare a un progetto di decorazione murale per l'Aula Magna dell'Università di Oslo ma,colpito da una grave malattia agli occhi, è costretto a un lungo periodo di riposo. Alla sua morte, il 23 gennaio 1944, lascia, come da testamento, tutte le sue opere alla città di Oslo.

 

Vincent Van Gogh

vangoghVincent Van Gogh (1853-1890) ha impartito nella sua arte una profonda essenza della vita, e in modo così unico modo che molti dicono che è possibile vivere questa esperienza guardando i suoi dipinti , anche una sola volta. In 10 anni, pur esercitando sforzi mentali e fisici che possono così aver contribuito alla sua morte prematura, ha prodotto un numero impressionante di capolavori. Tuttavia, la specifica malattia neurologica di Van Gogh e come possa può avere influenzato la sua arte non è ancora chiaro.

La combinazione della sua personalità eccentrica, temperamento irascibile, umori instabili e prolifica creatività, rende la comprensione della sua malattia una questione molto complessa e, pertanto, rappresenta una grande sfida per coloro che vogliono indagare i rapporti tra i 'la mente artistica , il cervello e la malattia. In realtà, la maggior parte delle diagnosi (quasi 30) proposte per Van Gogh, nel corso del secolo scorso, non sono basate su prove mediche, ma sono verificabili dalle analisi delle sue opere e dati biografici. Anche se non si può fare una definitiva diagnosi la diagnosi più plausibile che può essere fatta sulla base di tali elementi, ai sensi del DSM-IV criteri e dei risultati estrapolati dalle sue lettere, Van Gogh, è che soffrisse di disturbo bipolare, che ha causato la sua morte per suicidio.

Paul Gaugin Van Gogh ad Arles

paul_gauginChe cosa furono le nove settimane in cui Van Gogh e Gauguin vissero fianco a fianco ad Arles?

Un disastro eppure un trionfo, la follia a braccetto del genio, la gioia di creare e la nevrosi di fallire... Si conclusero con il primo che rincorreva il secondo con un rasoio, con il secondo che saggiamente se ne andava a dormire in albergo, con l'orecchio di Van Gogh tagliata dalla sua stessa mano e offerto come dono a una prostituta locale... Di lì il ricovero in clinica, un mesto saluto, un non più rivedersi.

Vincent morirà due anni dopo, nel 1890, dopo essersi sparato un colpo di pistola al petto, in quella Provenza che lo aveva così tanto segnato, Paul gli sopravviverà per un decennio e poco più, in un'isola delle Marchesi dove la sua fuga dalla civiltà lo aveva portato, trentasette anni l'uno, cinquantacinque l'altro.

Quelle nove settimane, appena due mesi, insomma, cambiarono anche il corso della storia dell'arte e ciò che di Van Gogh e di Gauguin oggi ammiriamo nei più importanti musei del mondo, furono in buona parte dipinti lì e andarono a riempire le stanze e le pareti della modesta dimora che fungeva da casa e da studio: tele, intuizioni e sperimentazioni a cui credevano solo i diretti interessati e qualche spirito più avvertito o semplicemente più amico. Perché Van Gogh dovette in pratica morire prima di divenire famoso, e Gauguin fu raggiunto dalla fama in un angolo dell'Oceano Pacifico dove essere famosi non significava niente.
Con pochi anni di distanza l'uno dall'altro, piccoli di statura, ma robusti, Vincent e Paul, esclusa l'arte, avevano poco in comune. Gauguin si portava sulle spalle un'esperienza giovanile da marinaio, era sposato e padre di figli, anche se viveva e si comportava da scapolo, amava ritrarsi nei panni del Jean Valjan dei Miserabili di Victor Hugo, un uomo in fuga, braccato dall' autorità, messo al bando, martire e santo... "Una creatura vergine dagli istinti selvaggi" lo descriverà l'amico e in questa descrizione c'era dell'intuizione, ma anche il riflesso di ciò che Gauguin voleva che di sé filtrasse, l'antiborghese spregiatore dei costumi del suo tempo, la sanità fisica che è un tutt'uno con la fisicità del vivere. "Forte come un toro, pigro come un serpente" era il suo motto...

Nell'autoritratto che Van Gogh inviò al suo futuro coinquilino, come segno distintivo del percorso che insieme avrebbero potuto compiere, invece dell'evaso tanto caro a Gauguin c'è una sorta di recluso, di prigioniero, di monaco e di detenuto... Era così che Van Gogh si sentiva, il figlio di un pastore protestante che aveva abbandonato il proprio padre e con esso il proprio dio, l'artista che teneva il mondo lontano da lui per paura che il mondo si impadronisse di lui, l'asceta di una nuova religione, quella dell'arte, che usava i colori al posto delle preghiere...

Eppure, e può sembrare un paradosso, quest'uomo in fuga dal mondo aveva esordito nel commercio che aveva appena sedici anni, era stato predicatore, mestiere abbandonato perché in pubblico la voce gli moriva in gola, aveva convissuto con una donna incinta di un altro uomo, dall'Olanda era andato inInghilterra, dall'Inghilterra in Francia, conosceva le lingue, era un lettore accanito, un grafomane impenitente...

Quando i due si incontrarono, Van Gogh viveva ad Arles da quasi un anno. In quell'arco di tempo e nelle nove settimane di convivenza, dipinse qualcosa come duecento quadri, quasi un terzo di quelli che Gauguin produrrà in tutta la sua vita, e molti di questi erano capolavori. La maggior parte si trovava nella Casa Gialla, un po' dappertutto: attaccati alle pareti, appesi entro cornici, ammucchiati in magazzino. Il 23 ottobre del 1888, il giorno in cui fisicamente Paul entrò nella vita di Vincent, la novità più straordinaria furono proprio quelle tele: pochissimi erano in grado, quanto Gauguin, di comprendere che cosa l'altro avesse realizzato, e nessun altro aveva migliori motivi per ammirarlo, assimilarlo, magari contrastarlo.

Eppure per Vincent, il maestro era l'altro, più maturo, più sicuro. Era Vincent che si era battuto perché dalla Bretagna il collega si trasferisse in Provenza, che aveva messo di mezzo il fratello Theo perché in qualche modo garantisse economicamente il successo del cambiamento geografico. Ciò che Van Gogh voleva era lavorare fianco a fianco, a pochi metri di distanza, vicino a un fratello spirituale, su soggetti paralleli.

Questo sarebbe dovuto essere la Casa Gialla: lo Studio del Sud, il punto di partenza di una nuova idea della forma e del colore.

Caratterialmente, i due avevano diversi punti in comune, eppure c'era in questa eguaglianza una totale diversità. La colse molto bene Gauguin quando osservò che l'amico era "un vero e proprio vulcano", rispetto a lui che "si agitava internamente"... Nello spazio ristretto di uno studio di cinque metri, il contrasto era ancor più stridente: Van Gogh dipingeva velocemente e con furia, Gauguin era più pacato e contemplativo, l'olandese, lasciava aperti i tubetti dei colori, in disordine pennelli e tavolozze, il francese aveva imparato andando per mare l'importanza dell'ordine.. Nei giorni freddi, quando le finestre rimanevano chiuse, l'odore di colori a olio, di fumo di pipa e di corpi sudati e mal lavati (non c'era l'acqua calda, il bagno era esterno) doveva rendere l'atmosfera irrespirabile.

Dirà Theo Van Gogh, il fratello mercante che faceva un po' da protettore e da guida, che esisteva "un Vincent amabile e un Vincent insopportabile". Come tutte le persone abituate alla solitudine, il parlare si trasformava in verbosità, il piacere di esprimersi non sopportava l'essere contraddetto.

Più il contrasto di idee si acuiva e più il parlare nevrotico veniva in superficie e si accentuava addirittura se dall'altra parte sopraggiungeva il silenzio. Ciò che per quelle nove settimane rese possibile il rapporto fu che il più giovane Van Gogh riconosceva al più anziano, sia pure di pochi anni, Gauguin, un magistero superiore, di vita e di arte, e quanto a questi, l'essersi accorto da subito della enorme grandezza del suo coinquilino, faceva sì che molte punte polemiche venissero smussate, molti giudizi tranchant venissero lasciati cadere.

In un ritratto di Van Gogh fatto da Gauguin c'è la chiave per capire la catastrofe che si andava preparando.Si intitola "Van Gogh che dipinge girasoli ad Arles": "Forse non c'è molta somiglianza disse l'autore nel regalarlo a Theo, che era anche il suo mercante d'arte, "ma credo ci sia qualcosa del suo carattere interiore". "Ero davvero io, molto stanco e carico di elettricità com'ero allora" commetò il diretto interessato in una lettera e poi, stando alle memorie di Gauguin, aggiunse: "Sono io, ma sono io dopo che sono diventato matto". Come tutti quelli che soffrono di depressione maniacale o disturbo bipolare, Van Gogh era più o meno coscientemente consapevole del suo stato, esaltazione e depressione si alternavano e il lavoro, così come il bere, erano una sorta di cura della prima fatta tuttavia della malattia che la estrinsecava: curare l'eccesso con l'eccesso, insomma... Il rendersene conto allontanava lo spettro della follia, ma non lo eliminava. Van Gogh sapeva che prima o poi ci sarebbe scivolato dentro senza accorgersene, e questo spiega quel commento precedentemente riportato: In Le Horle, un racconto di Maupassant che lui aveva letto, erano descritte le esperienze di un uomo convinto di essere perseguitato da un essere invisibile.

Per liberarsene, dava fuoco alla casa, uccidendo così i domestici e solo allora il lettore si rendeva conto che quel doppio invìsibile proveniva dall'interno dell'uomo, era frutto della sua pazzia.
Come scriverà all'amico dal letto di ospedale: "Nella mia febbre mentale o nervosa, o nella mia pazzia - non so come esprimerla o come definirla - i miei pensieri navigano su molti mari. I miei sogni hanno viaggiato fino dove arrivò Le Horle".

Annunciato da più segni, il tracollo alla fine arrivò. Van Gogh sapeva che prima o poi Gauguin se ne sarebbe andato, e questo lo atterriva: significava tornare solo, significava il fallimento della sua sfida artistica e il dover ammettere che non c'era nessuno che pensasse con lui e per lui, che gli fosse diconforto, di stimolo e di protezione. E però questa paura era anche un desiderio, il voler restare solo, il dover restare solo, consapevole della propria unicità, del proprio disperato valore. "Fondamentalmente Gauguin e io ci capiamo, e se siamo un po' matti, che importanza ha" scriverà al fratello dopo che l'epilogo era giunto e lui si era autopunito mutilandosi.

Su questo gesto, il taglio di un orecchio, sono scorsi fiumi di inchiostro.In soggetti bipolari come Van Gogh, l'associazione fra suggestioni e temi i più disparati era una norma, e ciò che a una mente normale appare incongruo in un soggetto deviato risponde a una logica del tutto coerente.

Qualche mese prima di morire Vincent ricevette la visita di un vecchio amico, il pittore Paul Signac. Di passaggio ad Arles, stava andando a lavorare a Cassis, sulla costa mediterranea. Era il segno che Van Gogh aveva avuto ragione nel considerare il sud della Francia come la nuova terra dell'arte.

D'ora in poi, con sempre maggior frequenza, i pittori di Parigi avrebbero preso il volo, come uccelli migratori: i Fauves, i cubisti, Matisse, Picasso: avrebbero tutti seguito Vincent, al Sud...