Cause genetiche

Gli impostori della genetica

Di Bertrand Jordan
Grandi Tascabili Einaudi - 2002 - 13 Eu  ( 1a ediz. Francese: edition de Seuil - 2000) 

 

Tutte le teorie psichiatriche riguardanti le varie forme della pazzia (schizofrenia, mania, maniaco-depressione, depressione, ..) hanno come ipotesi base che ci sia una determinante genetica per ognuna delle malattie- diagnosi. Determinante non ancora ben riscontrata - la prima tappa suddetta - ma, dicono tutti gli psichiatri, ci sono primi riscontri, .., presto sarà un fatto certo.

Ebbene Il capitolo del libro, sottoallegato ,riguarda una ricerca che riguarda appunto la ricerca genetica inversa per la "maniaco-depressione".

 

Capitolo sesto :  Un episodio maniaco-depressivo

La genetica delle malattie psichiatriche ha spiccato il volo nel corso degli anni Ottanta, almeno per quanto riguarda i progetti di ricerca, le comunicazioni ai congressi e gli articoli nelle riviste specializzate. I risultati reali e confermati, invece, sono rimasti decisamente pochi. Colpa di un tentativo prematuro e piuttosto ingenuo di applicare a queste malattie lo schema che aveva funzionato così bene per la miopatia, la mucoviscidosi e la corea di Huntington. Studiare attraverso la genetica inversa malattie complesse e misteriose era una tentazione irresistibile.

La schizofrenia e la psicosi maniaco-depressiva pongono problemi di salute pubblica più gravi e colpiscono una percentuale rilevante della popolazione; per queste malattie il ruolo dell’ereditarietà è generalmente ammesso, almeno dalla maggior parte dei genetisti e degli psichiatri. Gli psicanalisti, invece, sono di diverso avviso: cosa logica per i depositari di una disciplina fondata sull’ipotesi del primato degli avvenimenti della prima infanzia e della storia personale.

Di fatto esistono famiglie, e persino popolazioni isolate e omogenee come gli Amish negli Stati Uniti, all’interno delle quali la psicosi maniaco-depressiva è molto diffusa, arrivando a colpire fino a una persona su cinque o su dieci. Gli individui di questi gruppi hanno un patrimonio genetico molto simile, e questo fatto viene spesso utilizzato quale argomento a favore del determinismo ereditario. Questo ragionamento va soppesato con cura: un genitore maniaco-depressivo può creare un ambiente favorevole allo sviluppo di una patologia simile nei figli, senza che debba intervenire la genetica. Nel caso degli Amish, la cultura estremamente rigida di questa comunità puritana, che vive volontariamente nelle condizioni del XIX secolo offre una spiegazione “ambientale” piuttosto forte.

L’affermazione del ruolo dell’ereditarietà è basata principalmente su studi familiari particolari, in cui lo strumento più potente è la comparazione tra veri e falsi gemelli. I falsi gemelli, frutto di due concepimenti simultanei, sono imparentati allo stesso livello dei fratelli e delle sorelle, nulla di più; i veri gemelli, al contrario, provengono dalla separazione in due di un unico embrione, e possiedono esattamente lo stesso insieme di geni, perlomeno alla nascita. La concordanza tra veri gemelli è all’incirca del 50 per cento, ovvero il gemello di un malato è a sua volta colpito dalla malattia una volta su due. Per i falsi gemelli questa cifra è invece solamente del 10 per cento, molto simile a quella che si osserva nei membri di una qualsiasi famiglia. In questo caso non sembrerebbero quindi esserci differenze di rilievo rispetto alla norma. O quasi, come vedremo più avanti1. La differenza tra veri e falsi gemelli mette così in luce un’influenza dell’ereditarietà sulla propensione alla psicosi maniaco-depressiva.

Ammettiamo quindi il ruolo svolto dall’ereditarietà, e ammettiamo che esista un gene coinvolto in questa malattia. Perché tentare di identificarlo? In che modo questo potrebbe aiutare i malati? Non si tratta, in realtà, di una curiosità senza reale giustificazione scientifica o medica? La questione merita di essere sollevata, e sarebbe bene che avvenisse più spesso!

Precisiamo innanzitutto l’obiettivo: in caso di successo il gene identificato non sarà “il gene della psicosi maniaco depressiva”. Il risultato di uno studio coronato da successo, che avesse raggiunto lo stadio della localizzazione e quello dell’identificazione, indicherebbe un gene —   presente in ognuno di noi —   di cui certe varianti, certi alleli, conferiscono al loro possessore un'accresciuta vulnerabilità alla psicosi, ad esempio un rischio relativo di 10. Questa cifra, la misura di vulnerabilità, indicherebbe che se il rischio di avere un episodio maniaco-depressivo nel corso della propria vita è dell’1 per cento per l’intera popolazione, arriverebbe al 10 per cento per i possessori dell’allele in questione, la maggior parte dei quali (il 90 per cento) resterebbero comunque sani.

L’interesse e la potenziale utilità di tali lavori sono incontestabili. Innanzitutto, l’evidenziazione di un legame convincente —   e quindi l’identificazione di un gene sistematicamente mutato nelle persone malate — dimostrerebbe che l’ereditarietà svolge un ruolo indiscutibile nell’espressione di questa malattia. Questa prova non escluderebbe affatto il peso dell’ambiente o della storia personale, ma metterebbe fine a certi deliri di cui l’antipsichiatria degli anni Settanta ha dato numerosi esempi, le cui conseguenze possono essere disastrose per i malati. Inoltre, la natura del gene potrebbe chiarire l’eziologia della malattia. Supponiamo, ad esempio, che la decifrazione del segmento di DNA in esame, lo studio della proteina di cui contiene la formula e lo studio della sua funzione, mostrino che si tratta di un enzima che agisce sulla sintesi della dopamina, in una specifica regione del cervello. L’analisi delle varianti del gene associate alla psicosi (o meglio: a una vulnerabilità accresciuta alla psicosi) indicherebbe che queste ultime sono portatrici di una modificazione che rende l’enzima più attivo, provocando una iperproduzione di dopamina nella zona presa in esame. Le conseguenze sarebbero, allora, considerevoli. Avremmo appreso che un eccesso di dopamina in una certa zona cerebrale è associata a una maggiore vulnerabilità alla malattia, e che potrebbe addirittura esserne la causa. Punto di partenza per tutta una serie di nuove ricerche. Tutti i malati presentano una concentrazione elevata di questo ormone? Questa concentrazione varia nel tempo in uno stesso individuo e vi è una correlazione con le crisi? Quali sono, negli animali, le conseguenze di questo aumento su un insieme di parametri anatomici e neurologici?

Lo scalpello della genetica avrebbe così rivelato il difetto presente nei malati, aprendo la strada per la comprensione dei meccanismi biologici alla base di questa predisposizione e facendo così progredire la conoscenza di questa malattia misteriosa. E, nell’attesa delle ricadute mediche, il solo fatto di avere evidenziato l’implicazione della dopamina potrebbe suggerire nuovi approcci terapeutici. Non si tratta quindi di malsana curiosità, ma di una ricerca con conseguenze potenzialmente importanti. Le sue giustificazioni intellettuali e mediche sembrerebbero pertanto legittime.

Questa ricerca, che potrebbe accrescere la comprensione di una grave malattia e migliorarne la cura, come va condotta? La strada da seguire è quella classica della genetica inversa. Per cominciare, uno studio genetico condotto presso numerose famiglie che presentino un numero elevato di persone colpite, in cui verrà seguita la trasmissione della malattia e, simultaneamente, quella di circa trecento marcatori (paletti che coprono i cromosomi nel loro complesso e definiti al momento della costruzione della mappa genetica): un genome scan, in definitiva, una scansione del genoma nella sua totalità, poiché non si sa a priori su quale cromosoma cercare. Il fine dell’operazione è scoprire uno o più marcatori legati alla predisposizione alla malattia e con essa trasmessi: se in una persona colpita si ritrovano sistematicamente gli stessi alleli di tre marcatori provenienti dalla stessa regione del cromosoma 6, come nel genitore, questo indicherà che il gene responsabile della malattia ha un’alta probabilità di trovarsi in questa regione cromosomica.

A questa localizzazione seguirà lo studio molecolare della zona di DNA così individuato, che verrà donato, mappato ed eventualmente sequenziato per fare l’inventario dei geni che contiene. Promossi a “geni candidati”, questi verranno allora analizzati in una serie di malati e di persone sane: l’epilogo si avrà il giorno in cui uno di essi risulterà sistematicamente modificato (mutato, inattivo, parzialmente cancellato...) nei malati. Avremo, allora, il gene che (nella sua forma mutante) induce in queste persone una accresciuta vulnerabilità alla psicosi. Questa conoscenza verrà, quindi, utilizzata per far progredire contemporaneamente la conoscenza della malattia e la sua cura.
 
Purtroppo, la storia della ricerca sui determinanti genetici della psicosi maniaco-depressiva è ben lungi dall’avvicinarsi a questo schema ideale. Come faceva notare David Botstein (uno degli inventori della genetica inversa) in uno studio storico da cui ho preso il titolo per questo capitolo2, l’andamento dei lavori assomiglia di fatto alla malattia stessa, con fasi di eccitazione in cui si crede di raggiungere un risultato, seguite da periodi depressivi in cui i risultati precedentemente acquisiti si rivelano falsi e in cui domina lo sconforto. La localizzazione della malattia, a partire dal 1969, è stata oggetto di dozzine di pubblicazioni nelle migliori riviste scientifiche, presentando inizialmente serie garanzie. Ma questi dati sono decisamente contraddittori: individuano il gene ricercato a volte sul cromosoma X, a volte sull’11, sul 5, sul 21, sul 12, sul 18... Anche quando uno stesso cromosoma viene individuato da studi indipendenti, le regioni poi non coincidono. Si tratta, peraltro, di lavori realizzati da gruppi seri e che, dopo l’attento esame di indiscutibili referees (scienziati incaricati dalle riviste di esaminare la validità dei manoscritti presentati), sono stati giudicati degni di apparire su queste pubblicazioni dall’ottima reputazione. E d’altra parte significativo osservare il cambiamento di tono di questi articoli nel corso degli anni. Dall’affermazione decisa del 1987: “Un legame genetico tra marcatori del cromosoma X e la psicosi maniaco-depressiva (bipolar affective illness”), si arriva, nel 1994, a un’ipotesi molto prudente: “Un possibile locus di vulnerabilità sul cromosoma 21q22.3”. Da oltre vent’anni le ricerche su questa malattia non raggiungono grandi risultati e sembrano rappresentare uno scacco della genetica inversa. Quali sono le ragioni?

Una prima spiegazione è che la vulnerabilità genetica alla psicosi maniaco-depressiva potrebbe dipendere da differenti cause, a seconda dei malati e delle famiglie: insuffcienza o, al contrario, eccesso di un neuromediatore; errore di “segmentazione” riguardante la sua sintesi nella regione sbagliata del cervello; assenza, o cattivo funzionamento, del recettore che normalmente lo rivela e scatena la risposta ormonale appropriata... Il cervello è l’organo più complesso del nostro organismo: vi agisce un numero di geni che si aggira sulle ventimila unità, su un totale di trentacinquemila di cui disponiamo, allorché la maggior parte degli altri organi ne attiva tra i cinque e i diecimila. E facile immaginare che difetti riguardanti differenti geni possano avere risultati simili e favorire l’emergere di patologie tra loro somiglianti, che noi raggruppiamo sotto il nome di “psicosi maniaco-depressiva”. Così, in una data famiglia, la tendenza alla psicosi può dipendere da un’anomalia del gene x, presente in forma mutata in un lontano antenato e trasmesso a certi membri della sua discendenza in base alla lotteria dell’ereditarietà. In un’altra famiglia, studiata da un’altra équipe di ricerca, il responsabile può invece essere il gene y. Risultati divergenti non sono per forza contraddittori: possono semplicemente essere conseguenza dell’eterogeneità genetica della malattia.

A discapito di questa ipotesi — che tutela la reputazione dei ricercatori coinvolti —  spesso i risultati non sono stati confermati al momento di un ulteriore studio condotto da altri scienziati sulle stesse famiglie. In questo caso, appare chiaro che la metodologia non è stata sufficientemente rigorosa. I marcatori erano troppo distanziati, le famiglie non erano significativamente numerose, dati genetici frammentari sono stati interpretati con troppa leggerezza. La localizzazione di un gene in una regione corrisponde a una certa probabilità, mai a una certezza assoluta. Nel corso degli anni, le tecniche che permettono di calcolare questa probabilità sono migliorate, e i criteri utilizzati oggi sono molto più restrittivi rispetto al 1980 o anche al 1990. L’eccessiva leggerezza degli inizi, motivata da alcuni successi sorprendenti, ha lasciato il posto a una grande prudenza e a esigenze metodologiche decisamente più rigide.

Ma gli studi su questo tipo di malattia soffrono di un’incertezza assai più grave, quella della diagnosi. Qualsiasi analisi genetica presuppone una chiara distinzione tra persone sane e persone malate. Questo distinguo è possibile e oggettivo quando si tratta di miopatia o di mucoviscidosi: sintomi codificati in maniera esatta, parametri biologici misurabili, evoluzione che segue uno schema conosciuto. Nella psicosi maniaco-depressiva i criteri sono più vaghi, i disaccordi tra psichiatri assai diffusi: come decidere dove sta la ragione? Inoltre, la situazione si evolve nel tempo. Uno o due individui considerati sani, e interpretati come tali nell’analisi, possono giocare un ruolo cruciale nella sua interpretazione. Se, tre anni più tardi, uno di questi va in depressione e passa nella categoria dei malati, le conclusioni raggiunte in precedenza vengono rimesse in discussione. E quanto è avvenuto per uno dei primissimi lavori che giunse a una localizzazione categorica sul cromosoma 5.

Queste spiegazioni non sono sicuramente sufficienti per motivare il fallimento delle ricerche. Dopo tutto, la maggior parte delle difficoltà descritte non sono esclusivo appannaggio degli studi sulle malattie psichiatriche. I lavori sulla propensione al cancro al seno, o sul morbo di Alzheimer precoce, si scontrano con ostacoli simili. Anche in questi casi possono essere coinvolti più geni; anche qui la malattia è evolutiva, può comparire in età relativamente avanzata, e una persona può essere portatrice di un fattore di vulnerabilità senza mai ammalarsi. D’altra parte, la diagnosi di un malato è fondata su parametri biologici che possiamo misurare in maniera precisa e presenta un carattere oggettivo innegabile. Per queste malattie, si sono ottenute localizzazioni convincenti, confermate in seguito da altri studi. A volte, lo studio è arrivato fino all’isolamento effettivo del gene, mutato nei malati e solo in essi. Questo traguardo valida l’insieme del percorso e dimostra che la localizzazione iniziale aveva un senso. Dimostra inoltre che la genetica inversa può produrre risultati probanti, anche quando l’individuazione di persone malate è insufficiente, come in tutte le predisposizioni, e vi sono coinvolti più geni.

L’attuale stasi degli studi sulla psicosi maniaco-depressiva indica quindi che la vulnerabilità a questa malattia non è causata dall’alterazione di un particolare gene che si ritrova in tutti i malati. Le determinanti genetiche devono essere molteplici, coinvolgendo geni diversi; si tratta, di fatto, dell’unica conclusione sicura di vent’anni di ricerche e innumerevoli articoli scientifici ! Alcuni ricercatori vanno oltre e suggeriscono che il meccanismo soggiacente non sia il semplice cattivo funzionamento di un gene, ma un fenomeno più complesso che fa intervenire interazioni tra differenti entità e in cui solo la concomitanza di certe variabili avrebbe conseguenze evidenti. Speriamo che non occorrano altri vent’anni per esserne sicuri.

Per il mondo scientifico, la saga della psicosi maniaco-depressiva è ricca di insegnamenti sul modo di condurre d’ora innanzi questi lavori. Il piano della ricerca deve imperativamente includere criteri diagnostici che siano il più precisi e oggettivi possibile, così come una definizione rigida dei criteri statistici utilizzati. La messa a punto di nuovi metodi di mappatura genetica che permettano lo studio di un grande numero di individui può dare nuova vita a questi studi, ma occorrerà anche facilitare le verifiche dando a diversi gruppi di ricerca un effettivo accesso ai campioni di DNA provenienti dalle famiglie studiate da un dato laboratorio: cosa che accade assai di rado. Tutto questo è necessario affinché queste ricerche possano progredire su basi più solide.

La lezione è altrettanto importante su un piano più generale. Un lavoro imponente su una tra le malattie psichiatriche meglio definite, condotta per un lungo periodo da una moltitudine di gruppi di ricerca qualificati, non è approdato all’identificazione convincente di un gene il cui cattivo funzionamento predisporrebbe a questa malattia. Di fronte a tale sconfitta, non bisognerebbe accogliere con la massima riserva le informazioni indicanti che un gruppo del Minnesota (o di Leicester, o di Montpellier) ha appena scoperto il “gene dell’omosessualità” o il “gene dell’iperattività infantile ”? In realtà, chiunque avesse la pazienza e la possibilità di risalire alle fonti della notizia, constaterebbe che si tratta di uno studio sul legame genetico (e non sull’isolamento di un gene), per cui “un gene situato in una certa regione di un certo cromosoma potrebbe, nelle famiglie studiate, essere coinvolto in una propensione all’omosessualità (o all’iperattività) ”. . Informazione nettamente meno mediatica rispetto alla “scoperta del gene dell’omosessualità” e che rischia, inoltre, di venire sconfessata nei prossimi mesi o anni, come avviene per gli innumerevoli lavori sulla psicosi maniaco-depressiva. Non bisogna, quindi, lasciarsi impressionare da queste affermazioni, tanto categoriche quanto infondate.

 

Fonte:  www.nopazzia.it