“Genio e sregolatezza”. I romantici ne fecero un mito. Ma già Aristotele si interrogava sul ricorrere abbinato di talento e squilibrio, almeno dell’umore, e Marsilio Ficino in pieno Rinascimento esaltava i dannati della duplice melanconia come benedetti figli di Saturno, votati a esperire i vertici dei cieli e degli abissi.
Al tempo dello spleen anche un medico si applicò al fenomeno per la prima volta in modo sistematico.
Fu Cesare Lombroso, scatenando clamore e un filone di studi col suo Genio e Follia (1864) in cui definiva il genio tout court una “psicosi degenerativa del gruppo epilettico” e invitava a non invidiarne, bensì a compatirne la brillantezza in quanto luce di povere “stelle cadenti”.