Bipolari famosi

Paul Gaugin Van Gogh ad Arles

paul_gauginChe cosa furono le nove settimane in cui Van Gogh e Gauguin vissero fianco a fianco ad Arles?

Un disastro eppure un trionfo, la follia a braccetto del genio, la gioia di creare e la nevrosi di fallire... Si conclusero con il primo che rincorreva il secondo con un rasoio, con il secondo che saggiamente se ne andava a dormire in albergo, con l'orecchio di Van Gogh tagliata dalla sua stessa mano e offerto come dono a una prostituta locale... Di lì il ricovero in clinica, un mesto saluto, un non più rivedersi.

Vincent morirà due anni dopo, nel 1890, dopo essersi sparato un colpo di pistola al petto, in quella Provenza che lo aveva così tanto segnato, Paul gli sopravviverà per un decennio e poco più, in un'isola delle Marchesi dove la sua fuga dalla civiltà lo aveva portato, trentasette anni l'uno, cinquantacinque l'altro.

Quelle nove settimane, appena due mesi, insomma, cambiarono anche il corso della storia dell'arte e ciò che di Van Gogh e di Gauguin oggi ammiriamo nei più importanti musei del mondo, furono in buona parte dipinti lì e andarono a riempire le stanze e le pareti della modesta dimora che fungeva da casa e da studio: tele, intuizioni e sperimentazioni a cui credevano solo i diretti interessati e qualche spirito più avvertito o semplicemente più amico. Perché Van Gogh dovette in pratica morire prima di divenire famoso, e Gauguin fu raggiunto dalla fama in un angolo dell'Oceano Pacifico dove essere famosi non significava niente.
Con pochi anni di distanza l'uno dall'altro, piccoli di statura, ma robusti, Vincent e Paul, esclusa l'arte, avevano poco in comune. Gauguin si portava sulle spalle un'esperienza giovanile da marinaio, era sposato e padre di figli, anche se viveva e si comportava da scapolo, amava ritrarsi nei panni del Jean Valjan dei Miserabili di Victor Hugo, un uomo in fuga, braccato dall' autorità, messo al bando, martire e santo... "Una creatura vergine dagli istinti selvaggi" lo descriverà l'amico e in questa descrizione c'era dell'intuizione, ma anche il riflesso di ciò che Gauguin voleva che di sé filtrasse, l'antiborghese spregiatore dei costumi del suo tempo, la sanità fisica che è un tutt'uno con la fisicità del vivere. "Forte come un toro, pigro come un serpente" era il suo motto...

Nell'autoritratto che Van Gogh inviò al suo futuro coinquilino, come segno distintivo del percorso che insieme avrebbero potuto compiere, invece dell'evaso tanto caro a Gauguin c'è una sorta di recluso, di prigioniero, di monaco e di detenuto... Era così che Van Gogh si sentiva, il figlio di un pastore protestante che aveva abbandonato il proprio padre e con esso il proprio dio, l'artista che teneva il mondo lontano da lui per paura che il mondo si impadronisse di lui, l'asceta di una nuova religione, quella dell'arte, che usava i colori al posto delle preghiere...

Eppure, e può sembrare un paradosso, quest'uomo in fuga dal mondo aveva esordito nel commercio che aveva appena sedici anni, era stato predicatore, mestiere abbandonato perché in pubblico la voce gli moriva in gola, aveva convissuto con una donna incinta di un altro uomo, dall'Olanda era andato inInghilterra, dall'Inghilterra in Francia, conosceva le lingue, era un lettore accanito, un grafomane impenitente...

Quando i due si incontrarono, Van Gogh viveva ad Arles da quasi un anno. In quell'arco di tempo e nelle nove settimane di convivenza, dipinse qualcosa come duecento quadri, quasi un terzo di quelli che Gauguin produrrà in tutta la sua vita, e molti di questi erano capolavori. La maggior parte si trovava nella Casa Gialla, un po' dappertutto: attaccati alle pareti, appesi entro cornici, ammucchiati in magazzino. Il 23 ottobre del 1888, il giorno in cui fisicamente Paul entrò nella vita di Vincent, la novità più straordinaria furono proprio quelle tele: pochissimi erano in grado, quanto Gauguin, di comprendere che cosa l'altro avesse realizzato, e nessun altro aveva migliori motivi per ammirarlo, assimilarlo, magari contrastarlo.

Eppure per Vincent, il maestro era l'altro, più maturo, più sicuro. Era Vincent che si era battuto perché dalla Bretagna il collega si trasferisse in Provenza, che aveva messo di mezzo il fratello Theo perché in qualche modo garantisse economicamente il successo del cambiamento geografico. Ciò che Van Gogh voleva era lavorare fianco a fianco, a pochi metri di distanza, vicino a un fratello spirituale, su soggetti paralleli.

Questo sarebbe dovuto essere la Casa Gialla: lo Studio del Sud, il punto di partenza di una nuova idea della forma e del colore.

Caratterialmente, i due avevano diversi punti in comune, eppure c'era in questa eguaglianza una totale diversità. La colse molto bene Gauguin quando osservò che l'amico era "un vero e proprio vulcano", rispetto a lui che "si agitava internamente"... Nello spazio ristretto di uno studio di cinque metri, il contrasto era ancor più stridente: Van Gogh dipingeva velocemente e con furia, Gauguin era più pacato e contemplativo, l'olandese, lasciava aperti i tubetti dei colori, in disordine pennelli e tavolozze, il francese aveva imparato andando per mare l'importanza dell'ordine.. Nei giorni freddi, quando le finestre rimanevano chiuse, l'odore di colori a olio, di fumo di pipa e di corpi sudati e mal lavati (non c'era l'acqua calda, il bagno era esterno) doveva rendere l'atmosfera irrespirabile.

Dirà Theo Van Gogh, il fratello mercante che faceva un po' da protettore e da guida, che esisteva "un Vincent amabile e un Vincent insopportabile". Come tutte le persone abituate alla solitudine, il parlare si trasformava in verbosità, il piacere di esprimersi non sopportava l'essere contraddetto.

Più il contrasto di idee si acuiva e più il parlare nevrotico veniva in superficie e si accentuava addirittura se dall'altra parte sopraggiungeva il silenzio. Ciò che per quelle nove settimane rese possibile il rapporto fu che il più giovane Van Gogh riconosceva al più anziano, sia pure di pochi anni, Gauguin, un magistero superiore, di vita e di arte, e quanto a questi, l'essersi accorto da subito della enorme grandezza del suo coinquilino, faceva sì che molte punte polemiche venissero smussate, molti giudizi tranchant venissero lasciati cadere.

In un ritratto di Van Gogh fatto da Gauguin c'è la chiave per capire la catastrofe che si andava preparando.Si intitola "Van Gogh che dipinge girasoli ad Arles": "Forse non c'è molta somiglianza disse l'autore nel regalarlo a Theo, che era anche il suo mercante d'arte, "ma credo ci sia qualcosa del suo carattere interiore". "Ero davvero io, molto stanco e carico di elettricità com'ero allora" commetò il diretto interessato in una lettera e poi, stando alle memorie di Gauguin, aggiunse: "Sono io, ma sono io dopo che sono diventato matto". Come tutti quelli che soffrono di depressione maniacale o disturbo bipolare, Van Gogh era più o meno coscientemente consapevole del suo stato, esaltazione e depressione si alternavano e il lavoro, così come il bere, erano una sorta di cura della prima fatta tuttavia della malattia che la estrinsecava: curare l'eccesso con l'eccesso, insomma... Il rendersene conto allontanava lo spettro della follia, ma non lo eliminava. Van Gogh sapeva che prima o poi ci sarebbe scivolato dentro senza accorgersene, e questo spiega quel commento precedentemente riportato: In Le Horle, un racconto di Maupassant che lui aveva letto, erano descritte le esperienze di un uomo convinto di essere perseguitato da un essere invisibile.

Per liberarsene, dava fuoco alla casa, uccidendo così i domestici e solo allora il lettore si rendeva conto che quel doppio invìsibile proveniva dall'interno dell'uomo, era frutto della sua pazzia.
Come scriverà all'amico dal letto di ospedale: "Nella mia febbre mentale o nervosa, o nella mia pazzia - non so come esprimerla o come definirla - i miei pensieri navigano su molti mari. I miei sogni hanno viaggiato fino dove arrivò Le Horle".

Annunciato da più segni, il tracollo alla fine arrivò. Van Gogh sapeva che prima o poi Gauguin se ne sarebbe andato, e questo lo atterriva: significava tornare solo, significava il fallimento della sua sfida artistica e il dover ammettere che non c'era nessuno che pensasse con lui e per lui, che gli fosse diconforto, di stimolo e di protezione. E però questa paura era anche un desiderio, il voler restare solo, il dover restare solo, consapevole della propria unicità, del proprio disperato valore. "Fondamentalmente Gauguin e io ci capiamo, e se siamo un po' matti, che importanza ha" scriverà al fratello dopo che l'epilogo era giunto e lui si era autopunito mutilandosi.

Su questo gesto, il taglio di un orecchio, sono scorsi fiumi di inchiostro.In soggetti bipolari come Van Gogh, l'associazione fra suggestioni e temi i più disparati era una norma, e ciò che a una mente normale appare incongruo in un soggetto deviato risponde a una logica del tutto coerente.

Qualche mese prima di morire Vincent ricevette la visita di un vecchio amico, il pittore Paul Signac. Di passaggio ad Arles, stava andando a lavorare a Cassis, sulla costa mediterranea. Era il segno che Van Gogh aveva avuto ragione nel considerare il sud della Francia come la nuova terra dell'arte.

D'ora in poi, con sempre maggior frequenza, i pittori di Parigi avrebbero preso il volo, come uccelli migratori: i Fauves, i cubisti, Matisse, Picasso: avrebbero tutti seguito Vincent, al Sud...

 

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