Psicofarmaci

Dare la colpa al cervello

ELLIOT S.VALENSTEIN : BLAMING THE BRAIN
the truth about drugs and Mental Health
THE FREE PRESS, New York 1997)
[Dare la colpa al cervello - la verità sulla malattia mentale e gli psicofarmaci]


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Capitolo 8

RIPRESA, CONCLUSIONI, RIFLESSIONI

Non mi è possibile fare un sommario, in questo capitolo conclusivo, di tutte le evidenze ed argomenti che mi conducono a respingere le teorie chimiche della malattia mentale ora esistenti. Questo è stato fatto attraverso tutto il libro. Posso però evidenziare di nuovo alcuni aspetti principali, esaminando alcune affermazioni sui farmaci psicoterapeutici e sui disordini mentali che sono ripetute così spesso da essere quasi presentate come assiomatiche ed incontestabili. Una di queste affermazioni è che i farmaci psicoterapeutici agiscono sui disordini mentali nella stessa maniera che l’insulina agisce sui diabetici.

Questa affermazione implica che i farmaci psicoterapeutici correggono, come l’insulina, note deficienze (o eccessività, in alcuni casi) chimiche. Questa analogia è ripetuta e ripetuta non solo nei prospetti promozionali delle compagnie farmaceutiche e in articoli pubblicati in giornali professionali, ma, a sentire quanto riferiscono i pazienti, ogni giorno negli ambulatori degli psichiatri e di medici comuni. Una psichiatra, che adesso non accetta più questo dogma, racconta cosa ha imparato durante il suo essere stata psichiatra interna [cioè di reparto, ndt]:


Come psichiatra interna, trovai questa terminologia buona quando parlavo con i pazienti e i loro familiari. Per dare una direttiva d’informazione a vari ascoltatori, avrei spiegato che la malattia mentale è causata da uno squilibrio chimico nel cervello. La malattia mentale rassomiglia al diabete, che è dovuto ad uno squilibrio chimico nel corpo, avrei spiegato. Il disordine del paziente mentale è cronico, avrei detto, richiede medicazione ogni giorno per tutto il resto della sua vita. Avrei quindi anche assicurato il paziente che se lui prendeva la medicazione, avrebbe con buona probabilità vissuto una vita più normale. La maggior parte delle persone accetta l’analogia tra gli psicofarmaci e l’insulina acriticamente, è persuasa da quello che appare un argomento ben valido e pertinente. Per di più l’analogia con il trattamento insulinico suggerisce che sarà necessario prendere lo psicofarmaco per la vita, o almeno per lungo tempo, proprio come i diabetici ed altre persone sofferenti di altre deficienze ormonali debbono prendere medicine per tutta la vita.
Nonostante sembri ragionevole, io non credo però che l’analogia tra l’insulina e gli psicofarmaci sia giustificata.

Si prescrive l’insulina per i diabetici, ma solo dopo che test sicuri hanno dato misura del problema di metabolismo del glucosio del paziente, test dai quali può quasi sempre essere dedotta una deficienza d’insulina. La dose d’insulina prescritta può essere basata su una ragionevolmente buona stima della grandezza della deficienza. In più, c’è anche una buona conoscenza di come l’insulina regola il metabolismo del glucosio e di come una deficienza di questo ormone agisce a produrre i sintomi del diabete. In netto contrasto, uno psichiatra non fa analisi di laboratorio per determinare se un paziente mentale ha una qualche deficienza od eccesso chimica. Invece, la spiegazione che il farmaco è prescritto per correggere una condizione biochimica anormale, è, al massimo, una inferenza dedotta in parte da comportamenti di piccoli e poco ripetibili gruppi di pazienti quali riportati nella letteratura sperimentale medica, ma piuttosto, fondamentalmente, questa prescrizione è basata solo su una semplice speranza che il farmaco possa aiutare. Inoltre, mentre abbiamo una buona conoscenza di come l’insulina allevia i sintomi del diabete, noi non conosciamo per quale ragione gli psicofarmaci alleviano i sintomi dei disordini mentali, o perché spesso falliscono a farlo. Ciononostante molti stanno ad insistere che ci sono abbondanti evidenze indirette indicanti che pazienti con un determinato disordine mentale hanno una specifica anormalità biochimica, malgrado che, rispetto un dato paziente, non ci sono test di laboratorio in grado di confermarlo. Sono convinto che questi molti sovrastimino le loro certezze.

C’è abbondanza di proclami, ad es., che la schizofrenia sia causata da una iperattività del sistema dopaminico e che i pazienti depressi abbiano bassi livelli di serotonina, ma questi proclami non resistono ad un esame critico. La “teoria dopaminica della schizofrenia” è stata sostenuta tenacemente, nonostante considerevoli dati contradditori, a causa della necessità di dover avere una spiegazione comunque, per quanto inadeguata. Quando è stato trovato che gli schizofrenici non hanno alti livelli di attività dopaminica, è stato subito ipotizzato che però potrebbero avere un eccessi di ricettori dopaminici, i quali li renderebbero ipersensitivi nonostante i normali livelli di dopamina. Però, non è stato mai provato che gli schizofrenici abbiano un alto numero di ricettori dopaminici, per quanto ci sono stati alcuni proclami di aver trovato un alto livello di un particolare tipo di ricettore dopaminico, in un determinato luogo del cervello di alcuni schizofrenici. Ma, ricercatori altrettanto competenti non sono stati capaci di confermare questi proclami.

Financo in quegli studi dimostranti che in media gli schizofrenici hanno un alto numero di un particolare subtipo di ricettori dopaminici, molti schizofrenici non mostravano questo risultato, mentre alcuni soggetti normali lo mostravano, nonostante non avessero alcuna storia di disordine mentale. Poi, è oramai noto che il numero dei ricettori può essere influenzato sia dai trattamenti con psicofarmaci che da stati mentali ed emozionali comuni a molti schizofrenici, piuttosto che essere, come era spesso assunto, la causa del disordine. È stato cioè spesso confuso quale la causa e quale l’effetto nei disordini mentali.

Ci sono anche altre difficoltà nella “teoria dopaminica della schizofrenia”. Sono, per es., che alcuni farmaci antipsicotici efficienti non bloccano però quei particolari ricettori dopaminici che invece secondo alcuni investigatori dovrebbero essere i responsabili della schizofrenia. Il fatto che normalmente ci vogliano alcune settimane dopo l’inizio del trattamento, prima che qualsiasi effetto terapeutico sia visibile, ha reso molto difficile riconoscere quale sia il meccanismo principale responsabile dell’efficacia. Alcuni ricercatori suggeriscono ora che altri neurotrasmettitori e altre condizioni cerebrali siano coinvolte nell’eziologia e nei trattamenti della schizofrenia. Non sembra quindi che rimanga molto della teoria dopaminica della schizofrenia, a sentire quanto Arvid Carlsson, uno dei preminenti contributori alla nostra conoscenza della neurofarmacologia dopaminica, ha recentemente commentato:

L’ipotesi dopaminica riposa pressoché interamente su indirette, farmacologiche, evidenze e anche queste evidenze sono ambigue. Per es., il trattamento con agenti antidopaminergici spesso ha solo un successo parziale nella schizofrenia e frequentemente è ottenuto solo a spesa di dannosi effetti collaterali. Inoltre la sintomatologia della schizofrenia è imitata prodotta non solo da agenti dopaminergici, ma anche da farmaci che agiscono su altri sistemi di neurotrasmettitori.2


Perfino psichiatri convinti dell’idea che la schizofrenia sia una malattia del cervello, hanno ammesso che gli studi recenti su persone con disordini mentali hanno fallito a provare inequivocamente una iperattività dopaminica nel cervello di questi pazienti.

L’evidenza che la depressione sia causata da una anormalità biochimica è più debole ancora di quanto risulta per la schizofrenia. Poco dopo la scoperta dei primi pochi antidepressivi, fu ipotizzato che pazienti sofferenti di depressione fossero deficienti di serotonina oppure norepinefrina, od entrambe, dal momento che questi farmaci aumentavano l’attività di tali due sistemi di neurotrasmettitori. Questa ipotesi mandò ancor più in estasi quando qualcuno proclamò aver trovato che il farmaco reserpina, che si sapeva abbassare i livelli di serotonina ed norepinefrina, può provocare depressione. Però studi successivi fatti con controllo più accurato rivelarono che la reserpina ed altri prodotti che diminuiscono la serotonina e la norepinefrina raramente producono depressione, eccetto e non sempre in persone già sulla strada di sviluppare una depressione. Attualmente, non c’è una evidenza convincente che le persone depresse abbiano una deficienza di serotonina o noripinefrina.

Queste considerazioni ed altre evidenze ed argomenti discussi attraverso tutto il libro mi hanno condotto alla convinzione che ci sono veramente molto poche solide evidenze per entrambe le teorie, sia per quella della deficienza di serotonina / noripinefrina per la depressione, che per la teoria dopaminica della schizofrenia. Tuttavia in qualsiasi tipo di letteratura promozionale dei farmaci, esse sono propagandate quali fermamente stabilite.

Dopo aver esaminato le evidenze ed aver seguito i giri e i ritorni dei vari argomenti che sostengono le diverse versioni delle teorie chimiche dei disordini mentali, mi sono convinto che tutta la impressionante conoscenza neurofarmacologica in realtà non ci ha affatto avvicinato a capire l’origine dei disordini mentali e nemmeno a capire concretamente come possano fare i farmaci ad alleviare queste condizioni. Le persone con i disordini mentali possono essere incoraggiate a prendere i farmaci prescritti con la spiegazione che agiscono come l’insulina per il diabete, ma certamente questa analogia non è giustificata.

È molto ben chiaro che ci sono invece parecchi gruppi di persone che beneficiano col propagandare questa analogia.

Un’altra affermazione che deve essere esaminata più da vicino è che i disordini mentali siano disordini fisici . Questa affermazione implica in effetti che i disordini mentali siano causati da certe identificate fisiche (fisiologiche) condizioni. Ci possono essere fattori biologici che predispongono alcuni individui a sviluppare disordini mentali, ma una predisposizione non è una causa. Come e quando una predisposizione si sviluppi dipende da molti fattori non biologici, specialmente dipende da esperienze di vita e, in molte maniere, dall’influenza dell’ambiente circostante. L’affermazione che i disordini mentali siano disordini biologici ignora l’importanza dei fattori psicosociali; questa omissione implica che tali fattori siano di poca importanza.

Molti miei colleghi hanno difeso la affermazione che i disordini mentali siano disordini fisici dichiarando che questa affermazione implica solo che tutti gli stati mentali – sia quelli che caratterizzano la salute che quelli che caratterizzano il disordine mentale – non possano esistere nel vuoto, ma debbano emergere da un determinato substrato fisico. Ma in questa argomentazione c’è un po’ di più che un semplice sillogismo. Non sarebbe certamente necessario tirare fuori questo innocuo punto di vista di nuovo e poi di nuovo, finché pochissime persone restino non convinte che non possa esistere un evento mentale se non ci sia anche un evento cerebrale. Il ragionamento farmaceutico per gli antidepressivi ed antipsicotici che asserisce che questi disordini siano malattie fisiche è che ne segue una promozione agevole e naturale delle teorie chimiche del disordine mentale e dei trattamenti con farmaci.

Forse le più forti evidenze della importanza di fattori biologici nei disordini mentali, deriva dagli studi genetici. Dati ottenuto paragonando gemelli normali e gemelli identici e comparando figli adottati con genitori biologici e adottivi suggeriscono che fattori genetici possono influenzare la personalità, il temperamento, l’emozionalità, il comportamento, e predisporre a sviluppare disordini mentali. Però, quantunque fattori genetici possono predisporre, essi certamente non possono dettare la personalità, i tratti mentali, il comportamento. Per es., se uno di due gemelli identici ha la schizofrenia o il disordine maniaco-depressivo – i due disordini che si ritiene abbiano il più forte contributo genetico – c’è una probabilità di meno del 50% che il secondo gemello abbia lo stesso disordine, nonostante il fatto che la maggior parte dei gemelli identici hanno anche simultaneamente esperienze di vita molto simili.4 E intanto qui ci sono molti fattori fisici che non sono genetici, come l’esposizione a tossine, a infezioni, a danni fisici che possono essere fattori attivi a sviluppare disordini mentali; indubbiamente fattori psicologici e sociali giocano un ruolo molto importante a determinare come e se una predisposizione può essere sviluppata. Ora sappiamo anche che funzionamenti di base del cervello di gemelli identici possono differire, e numerosi studi hanno mostrato che le esperienze di vita possono modificare l’anatomia del cervello. Molte delle differenze nelle anatomie di gemelli identici, possono ben risultare come dovuti ad esperienze di vita diverse. La affermazione che i disordini mentali siano disordini fisici ha bisogno di prove ben maggiori di quanto finora mostrato.

La idea che i disordini mentali siano disordini fisici è stata ampiamente promossa ed accettata per parecchi motivi. Si sa che la persona che soffre di disordini mentali e specialmente le loro famiglie preferiscono generalmente una diagnosi di “malattia fisica” perché questo non comporta lo stigma e il disprezzo comunemente associati a “problemi psicologici”. Anche un “disagio fisico” spesso suggerisce una prognosi più ottimistica e un più breve ed meno costoso trattamento. Però, quantunque un paziente possa essere sollevato a ritenere che ha un “disagio fisico”, egli può adottare un ruolo passivo nella sua guarigione, diventando completamente dipendente dal trattamento fisico, che esso possa risolvere il suo stato. È chiaro che “disagio fisico” diventa spesso un termine linguistico sinonimo di deficienza od eccesso biochimico e una giustificazione per il trattamento farmacologico. È noto che i pazienti mentali sono spesso più facilmente convinti al trattamento con farmaci se essi sono convinti che hanno un disagio fisico. Inoltre, come discusso ampiamente in precedenza, gruppi di influenza come l’industria farmaceutica, gli psichiatri, l’OMS [Organizzazione mondiale Salute] e alcune assicurazioni mediche sono molto favorevolmente disposte verso qualsiasi teoria sostenga le teorie biochimiche e i trattamenti farmaceutici. Molti di coloro che sostengono le teorie biochimiche del disordine mentale sinceramente ritengono che l’evidenza che sostiene la teoria è convincente, ma le teorie che supportano il proprio interesse sembrano sempre più sensate.

Un’altra affermazione fatta frequentemente, specialmente negli ultimi anni, è che i farmaci psicoterapeutici siano diventati sempre più specifici. Questo è vero, ma fuorviante. Sono state messe a punto nuove tecniche per sviluppare farmaci che si legano solo ad un sottotipo di ricettore di neurotrasmettitore. Questi nuovi, altamente specifici farmaci, sono promossi come “veri missili” capaci di ricercare ed eliminare le diverse cause chimiche soggiacenti ad ogni disordine mentale. Nonostante che queste argomentazioni sembrano altamente ragionevoli a molti, ci sono molte ragioni per essere altamente scettici a proposito di questi proclami.

Prima di tutto è necessario distinguere tra i differenti significati di “specificità”. Un farmaco può veramente avere una “specificità farmacologica”, in quanto agisce principalmente su un ricettore bersaglio (o alcuni pochi), ma questo non necessariamente implica una “specificità funzionale”. Se anche un farmaco si legasse principalmente ad un tipo di ricettore, questa non è una ragione sufficiente per poter ritenere che questo effetto di stimolare o bloccare l’attività di questo ricettore comporti anche lo stimolare o bloccare un determinato sintomo mentale. Al contrario ci sono molte ragioni di ritenere che ciascun ricettore ha influenza su molte attività mentali e stati emozionali. Purtroppo i disordini mentali non sono semplici entità omogenee. Essi comportano disfunzioni del linguaggio, della percezione, della memoria, delle decisioni, delle emozioni e molto altro. La credenza che i complessi stati cognitivi ed emozionali che soggiacciono ad ogni disordine mentale siano regolati da un singolo sottotipo di ricettore di neurotrasmettitore, è probabilmente non più valida dell’idea sostenuta tempo addietro dai frenologisti, che ritenevano che complessi attributi mentali fossero localizzati in determinate parti specifiche del cervello. Purtroppo, come in ogni sistema complesso, altamente integrato, il cambiare un componente ha un effetto inevitabilmente a cascata su tutto il sistema. Il concetto di bersaglio specifico si riferisce solo all’iniziale e momentaneo effetto del farmaco. La specificità farmacologica si riferisce solo alla “prima tessera domino” di una serie di reazioni del cervello provocate dal farmaco. Per quanto riguarda la sua specificità farmacologica, è non realistico credere che anche l’effetto finale di qualsiasi farmaco sia analogamente circoscritto.

Ho descritto i dannosi effetti collaterali prodotti dalla pillole per dimagrire Pondomin e Redux, come anche dei cosìchiamati trattamenti fen-phen. Questi trattamenti farmacologici sono stati ipotizzati che agiscano perché aumentano la serotonina nel cervello. Ma, effetti contrari non previsti possono aversi anche quando un farmaco è relativamente specifico. La serotonina non c’è solo nel cervello, e certamente non è implicata solamente nel regolare l’appetito, nonostante che certo materiale promozionale sostenga questa idea. La serotonina è localizzata sia nel cervello che in molte parti del corpo, serie condizioni delle valvole del cuore e serie condizioni dei polmoni risultano come conseguenza dell’aumento della serotonina in questi organi.

È facile invece ricavare l’impressione dalla maggior parte dei libri poco critici dei sostenitori del prodigio della “rivoluzione farmacologica” che un aumento della serotonina possa solo migliorare la personalità, rendere le persone più sicure e felici, mentre una diminuzione della stessa provochi tutti aspetti non desiderabili. A questo proposito, è stato comunemente molto sovrastimato il fatto che la serotonina originariamente fu trovata capace di contenere i vasi sanguigni. Attualmente analogamente c’è molto di illusorio e fuorviante nei proclami di un aumento di specificità nei nuovi farmaci psichiatrici, mentre non è affatto chiaro se questi farmaci producano minori effetti collaterali dei loro predecessori o solo effetti diversi.

Attualmente le industrie farmaceutiche hanno un atteggiamento molto complesso e spesso ambivalente riguardo l’argomento della specificità. Da una parte le compagnie propagandano la loro nuova abilità a progettare farmaci con una specificità farmaceutica aumentata, facendo credere che questi farmaci siano capaci di cercare e correggere quella unica condizione che soggiace ad ciascun disordine mentale, fornendo quella specifica chiave necessaria per la specifica serratura. Il problema però è che ci sono buone ragioni per dubitare che ci sia una specifica condizione comune a tutti i pazienti sofferenti dello stesso disordine mentale. Considerando la eterogenità dei pazienti diagnosticati con lo stessa malattia, molti, se non la maggior parte, dei ricercatori clinici ritengono che siano coinvolte differenti eziologie. Talvolta i prospetti delle compagnie farmaceutiche vogliono dare l’impressione che il loro prodotto contenga una certa unica specifica proprietà per trattare una specifica condizione, nonostante che il composto non differisca significativamente da altri esistenti nel mercato. L’Alprazolan, una benzodiazepina, per es., è stato promosso come trattamento specifico per il “panico, disordine da panico”, perché fu disponibile nel periodo in cui gli psichiatri incominciarono ad usare questo termine come una distinta categoria diagnostica e perché in quel periodo un simile farmaco a base di benzodiazepina, il Valium, era super prescritto per qualsiasi stress di vita.

A volte però le stesse compagnie farmaceutiche incoraggiano l’uso per molti scopi del farmaco che essi producono, contraddicendo il vanto della specificità. Così il Prozac ed altre SSRI, ad es., erano stati inizialmente introdotti come antidepressivi, ma ora sono usati per trattare molte differenti condizioni, così da rompere l’intera idea della specificità della anormalità biochimica sottostante ciascun disordine mentale. Spesso le compagnie farmaceutiche vendono esattamente la stessa pillola con nomi differenti per malattie differenti. Così l’antidepressivo Wellbutrin (idrocloruro di buproprion) ha anche il nome Zyban, una pillola che aiuta a smettere di fumare. Non c’è però nessuna evidenza convincente che l’abitudine del fumare e la depressione (come anche della maggior parte dei disordini trattati dallo stesso farmaco) abbiano la stessa eziologia.

È un po’ più che solo una piccola ironia che a dispetto dei proclami fatti di farmaci con una azione farmacologica precisa, una quantità degli ultimi farmaci introdotti, quale il nuovo antipsicotico olanzepina (Zyprexa), agisca su più sistemi differenti di neurotrasmettitori ed il suo ampio spettro di attività farmacologica sia promosso come una via per aumentarne gli effetti.

I farmaci distribuiti sul mercato per trattare lo stesso disordine mentale, tendono ad avere lo stesso campo di azione. Così, per es., la maggior parte degli ultimi farmaci antidepressivi, sono progettati per agire principalmente sulla serotonina oppure serotonina e noropinefrina, mentre la maggior parte degli antipsicotici agiscono sul sistema dopaminico. Questo fatto spesso è vantato come una evidenza che le anormalità biochimiche sottostanti questi disordini sono state identificate. Però questa non è la sola spiegazione possibile. Un fattore altrettanto importante che spiega queste similarità nelle attività dei farmaci presenti sul mercato per lo stesso disordine mentale, è l’alto costo di produrre e introdurre nel mercato un nuovo farmaco. Questo alto costo tende a rendere le compagnie farmaceutiche “contrarie ai rischi” e generalmente molto conservative nel produrre nuovi farmaci. È stato stimato che ci vogliono tra dieci e dodici anni per sviluppare, testare, commercializzare, un nuovo farmaco; ad un costo tra 150 e 250 milioni di dollari. Perciò molti nuovi farmaci sono solo piccole modificazioni di farmaci già commercializzati con successo. A meno che non sopravvenga un grosso avanzamento nella nostra conoscenza di quali siano le cause delle diverse malattie mentali, oppure una improvvisa fortunata scoperta di una nuova classe di farmaci che risulti efficace a trattare un particolare disordine mentale, la maggior parte dei nuovi farmaci continueranno ad essere delle “copie” o “mia versione”, non sostanzialmente diversi dai precedenti.

Tutte queste considerazioni ed altre evidenze ed argomenti presentati in questo libro, mi conducono a concludere che la teoria che i disordini mentali siano causati da specifici squilibri biochimici, è molto più debole di quanto proclamato. Ho incominciato a pensare invece su chi abbia promosso tale teoria e i diversi modi in cui è stata fatta questa promozione. Sarebbe insincero sostenere che quando ho iniziato questa investigazione fossi ingenuo rispetto l’ipotesi che certi gruppi beneficiassero delle teorie biochimiche del disordine mentale e della fiducia nei trattamenti con farmaci, ma quando ho incominciato a calarmi più a fondo in questo materiale, sono diventato stupefatto dall’enormità dell’influenza di questi gruppi e delle molte differenti maniere in cui questa influenza è esercitata.

Per gli psichiatri, per le compagnie di assicurazione medica, ma specialmente per l’industria farmaceutica, i benefici derivanti dal promuovere le teorie biochimiche e i trattamenti con farmaci, sono principalmente economici. Ovviamente questo motivo non è mai messo in mostra apertamente. A partire dagli anni 1930, gli psichiatri sono sempre più diventati consapevoli di subire la competizione crescente di terapisti non medici, principalmente psicologi, assistenti sociali psichiatrici, consulenti di vario tipo. Col trascorrere degli anni, gli psichiatri sono sempre più stati attratti dal praticare trattamenti fisici, sopra e oltre qualsiasi valore terapeutico tali trattamenti avessero effettivamente. In primo luogo i trattamenti fisici hanno fornito agli psichiatri delle modalità di cura che non sono accessibili alla competizione di non medici. Il coma insulinico, lo shock con metrazol, la lobotomia prefrontale e i trattamenti elettroconvulsivi erano molto utili per questo scopo. Inoltre, le terapie fisiche e le teorie su cui esse erano basate, hanno contribuito a rendere la psichiatria più accettabile alle altre categorie di medici, storicamente scettici delle basi scientifiche delle “terapie del colloquio”. I farmaci psichiatrici, come le altre terapie fisiche prima di loro, hanno servito gli interessi della professione psichiatrica. Ovviamente gli psichiatri non sono tutti della stessa convinzione, ma in varie maniere la professione vista globalmente tende a promuovere l’uso dei farmaci esagerando quel che si sa sulle basi biochimiche del disordine mentale ed esagerando l’efficacia dei farmaci, spesso screditando modalità alternative. Mentre terapisti tradizionalmente non medici, come gli psicologi clinici, si sono opposti alle terapie fisiche, ultimamente la loro posizione rispetto i farmaci e le teorie biochimiche dei disordini mentali è diventata ambivalente; molti stanno cercando di ottenere il diritto di prescrivere farmaci con una aggressiva campagna lobbistica sulla legislazione statale. Molto prevedibilmente, gli psichiatri si stanno muovendo per proteggere il loro campicello e stanno attivamente lobbiando contro il concedere la possibilità di prescrivere farmaci a terapisti non medici.

Le assicurazioni mediche stanno attente ovviamente ai costi e in particolare tendono a scoraggiare i trattamenti che richiedono molte ore e un’alta spesa. Ogni volta che aggiornano i loro prospetti assicurazione-costi, le assicurazioni mediche giocano una parte preponderante nel far adottare trattamenti biochimici, distogliendo nel contempo dalle psicoterapie. L’argomentazione avanzata a favore della spiegazione biochimica dei disordini mentali e dei trattamenti farmacologici è sempre basata su proclami che l’evidenza dimostra la correttezza delle teorie biochimiche e dimostra l’efficacia e la sicurezza dei farmaci. Non è che non si presenti una argomentazione che non suoni bene, però questa argomentazione non è fondata su una valutazione obbiettiva di tutte le evidenze. Numerosi studi hanno chiarito che l’interesse e i pregiudizi personali influenzano il modo in cui le evidenze sono selezionate dai ricercatori, come diversamente persuasivi possano apparire gli stessi argomenti all’uno o all’altro. Nette debolezze logiche nelle argomentazioni sono frequentemente tralasciate, quando si sia d’accordo sulle conclusioni, e quando le conclusioni non si accordano alle convinzioni precostituite, allora difetti logici sono “rilevati” anche se non ci sono.

L’influenza della industria farmaceutica è la più rilevante di tutto, non solo a causa delle enormi risorse che ha a disposizione, ma anche per i molti modi in cui può esercitare tale influenza. Solo negli Stati Uniti, le compagnie farmaceutiche spendono circa 12,3 bilioni di dollari all’anno in pubblicità e altri tipi di promozioni, che è circa il 22,5% dei 54,7 bilioni di dollari che si stima sia il totale degli incassi delle compagnie farmaceutiche Usa.5 . L’industria farmaceutica spende una enorme quantità di denaro per influenzare le abitudini di prescrizioni dei medici. Questa influenza è esercitata attraverso massicci annunci pubblicitari nei giornali professionali e attraverso il contatto diretto con i medici da parte della organizzazione industriale di vendita. Studi hanno mostrato che i prospetti pubblicitari piazzati dalle industrie farmaceutiche nei giornali professionali o distribuiti direttamente ai medici, sono spesso esagerati e fuorvianti. Mentre è tipico che i medici si offendono di qualsiasi dubbio avanzato che essi non sappiano distinguere la differenza tra evidenza scientifica e promozione propagandistica, è stato però dimostrato ripetutamente che le loro preferenze nelle prescrizioni sono pesantemente influenzate dal materiale promozionale delle compagnie farmaceutiche.

Le compagnie farmaceutiche distribuiscono una gran quantità di materiale scolastico (letteratura,films, diapositive) gratuito alle scuole mediche, ed esse contribuiscono con denaro a supportare conferenze che aiutano i medici interni nell’aggiornamento e li aiutano a tenersi informati sulle ultime tendenze. Numerosi simposi medici e incontri professionali sono sponsorizzati da compagnie farmaceutiche. Alcune delle motivazioni delle compagnie farmaceutiche che sottoscrivono queste spese è di stabilire “benevolenza”. Il materiale promozionale può effettivamente essere utile ed informativo. Difficilmente è così invadente da promuovere uno specifico prodotto, ma il contenuto include sempre un punto di vista progettato per sostanzialmente aumentare le vendite dei farmaci che la compagnia produce. Così, per es., il materiale psichiatrico sottolineerà l’evidenza che suggerisce che la depressione ha una origine biochimica e che può essere trattata con successo con farmaci antidepressivi. Questo messaggio aiuterà la compagnia che vende farmaci antidepressivi, anche se lo specifico farmaco non è mai menzionato.

Inoltre, ci sono stati numerosi casi in cui le compagnie farmaceutiche hanno esercitato pressioni per sopprimere, ritardare, screditare, o modificare una informazione che essi hanno giudicato dannosa per la vendita dei loro prodotti. La pubblicità piazzata dalle compagnie farmaceutiche, fornisce un sostanziale supporto per molti giornali medici, e, anche se non sempre, gli editori sono spesso riluttanti a danneggiare i loro inserzionisti. In alcuni casi di uno studio critico della efficacia e sicurezza di un farmaco, l’impatto di un tale studio, è stato sminuito includendo un commento scritto da “esperti”, che in altre occasioni si erano rivelati consulenti della stessa compagnia produttrice il farmaco. Indagini hanno rivelato quanto sia difficile trovare un “esperto” di una specifica area medica, che non sia impastoiato da un qualche interesse monetario o ad una compagnia farmaceutica, o una delle più piccole compagnie “biotech” che sviluppano farmaci nella stessa area. Quando uno studio rivela che un particolare farmaco risulta causare certi effetti negativi prima non sospettati, ben prima che ci sia il tempo materiale di condurre qualsiasi analisi ulteriore del problema, la compagnia coinvolta emanerà un documento progettato per screditare lo studio, proclamando che ha falli che non è conclusivo che non deve essere considerato serio.

Le compagnie farmaceutiche sponsorizzano anche la maggior parte delle sperimentazioni cliniche dei nuovi farmaci, ed esse utilizzano “rilevatori della sperimentazione”, medici e farmacologi e di altre specializzazioni, per progettare le sperimentazioni, scegliere i clinici analizzatori dei dati, raccogliere insieme i dati, controllare come va avanti la sperimentazione, suggerire cambiamenti nel mezzo della sperimentazione, ed infine assumersi la maggior responsabilità di riassumere e pubblicare i risultati. Ma, come dice il detto, “chi paga il pifferaio, sceglie la canzone”. L’importanza della sperimentazione clinica non va sopravvalutata, perché sì è vero che essa provvede dati per giudicare la sicurezza e l’efficacia del nuovo farmaco, dati usati dal Federal Drug Administration [la Commissione Federale di Controllo dei Farmaci Usa, ndt] per approvare la messa in vendita; ma, una volta che il farmaco sia approvato, i medici possono esercitare il loro giudizio per prescriverlo per altri scopi, e le compagnie farmaceutiche possono usare la loro organizzazione di vendita ed altre strade promozionali, per incoraggiare i medici ad usarlo per scopi diversi da quello per cui è stato approvato.

Ho descritto come le compagnie farmaceutiche tentano di incrementare le vendite di psicofarmaci incoraggiando i medici di base ad utilizzare metodi diagnostici che permettono più agevolmente di individuare pazienti che potrebbero avere disordini mentali. È stato stimato che oltre 30 milioni di americani Usa hanno disordini di ansia o depressione, e si sa che i medici di base prescrivono più farmaci antiansia e antidepressivi di qualsiasi altro gruppo di medici, psichiatri inclusi. C’è una potenzialità immensa di consumo, che è stato solo parzialmente stimolato, e le compagnie farmaceutiche non solo hanno supportato lo sviluppo di brevi questionari che i pazienti possono compilare mentre sono nella sala di aspetto del medico di base, ma sono anche molto attive nel promuovere l’uso di tale materiale. Dati preliminari indicano che questo aumento massiccio nell’uso dei psicofarmaci avviene quando i medici di base usano questi nuovi mezzi diagnostici preliminari.

Non tutti gli schemi promozionali dell’industria farmaceutica sono diretti ai medici. Molti sono mirati proprio ai pazienti, agli utenti finali del prodotto. La quantità di denaro speso per pubblicizzare direttamente al paziente i farmaci da farsi prescrivere ha fatto passi da gigante negli ultimi anni. C’è una quantità sempre più grande di pazienti che chiedono al medico di prescrivergli un farmaco di cui hanno letto qualcosa in una inserzione su un giornale popolare, e le compagnie farmaceutiche hanno studi che indicano che quasi il 90% dei medici sono favorevoli a soddisfare tali richieste.6 Questa tendenza è destinata ad aumentare dal momento che il FDA [Commissione Federale Controllo Farmaci in Usa, ndt], a causa di pressioni di deputati, recentemente (8 agosto 1997) ha reso legale poter pubblicizzare i farmaci prescrivibili tramite radio e televisione, e alcune compagnie farmaceutiche hanno pressoché immediatamente annunciato l’inizio di grosse campagne pubblicitarie televisive dei loro prodotti.

Le compagnie farmaceutiche hanno utilizzato per un lungo numero di anni i gruppi di supporto dei pazienti per inviare messaggi ai pazienti. Ora ci sono un gran numero di gruppi di supporto dei pazienti (e delle loro famiglie) sofferenti di ogni concepibile disordine psichiatrico. Così, per es., ci sono gruppi di supporto per pazienti con schizofrenia, con depressione, con il disordine ossessivo compulsivo, con problemi di abuso di sostanze, con disordine per deficit di attenzione, e molti altri. La maggior parte di questi gruppi di supporto ricevono sostanziali finanziamenti dall’industria farmaceutica, e questo permette loro di aumentare il numero dei soci, di produrre ampi giornali sociali, ma anche all’industria farmaceutica di distribuire loro ogni tipo di pieghevole informativo, molti dei quali aiutano a propagandare i concetti della teoria biochimica del disordine mentale. Ho già descritto che, non di rado, l’informazione che circola nei gruppi di supporto dei pazienti è esagerata e fuorviante, ma pressoché sempre è proprio quel che le industrie farmaceutiche vogliono che il pubblico riceva.

Indubbiamente, ci saranno lettori di questo libro che riterranno questo resoconto delle attività delle industrie farmaceutiche non equilibrato ed esagerato. Ho già avuto conversazioni con amici e colleghi che hanno espresso questo punto di vista. Rispondendo loro, ho sottolineato che tutte le asserzioni fatte in queste note conclusive sono ben documentate con casi specifici nel corpo del libro. Sono convinto che le case farmaceutiche spendono una enorme quantità di denaro per aumentare le proprie vendite e propri profitti mediante l’influenzare i medici e il pubblico con modi che spesso nascondono la verità e che non sono spesso nell’interesse della scienza e del pubblico.

Non c’è dubbio che l’industria farmaceutica abbia reso importanti contributi alla salute pubblica e alla ricerca. Le compagnie farmaceutiche supportano numerosi simposi e altri incontri che forniscono a clinici e a scienziati di base l’opportunità di scambiarsi informazioni tra colleghi ed apprendere su nuovi sviluppi. Molti neuroscienziati (e tra questi è incluso chi scrive) hanno ricevuto dalle industrie farmaceutiche aiuti in varie maniere. Farmaci sperimentali usati in ricerca sono spesso forniti gratuitamente; bollettini tecnici ed assistenza sono altresì spesso forniti. Ho soggiornato a Londra in una “casa per ospiti” fornita da una compagnia farmaceutica, il che mi ha permesso di compiere una ricerca alla Wellcome Foundation’s History of Medicine and Science Museum, a sua volta supportata dalla compagnia farmaceutica Glaxo Wellcome. Innumerevoli neuroscienziati di base e clinici ricercatori hanno ricevuti dall’industria farmaceutica i fondi necessari per intraprendere progetti di ricerca. Facoltà universitarie di scienze mediche attive sia nell’insegnamento che nel far fare agli studenti pratica di cura di pazienti psichiatrici interni che nell’aggiornamento degli altri professionisti del campo di salute mentale presenti, ricevono regolarmente aiuti dalle industrie farmaceutiche, il che rende loro possibile invitare relatori esterni, e le industrie forniscono ogni tipo di materiale quali letteratura scientifica e films gratuitamente.

Nonostante che sia i ricercatori che gli educatori che i clinici sanno bene che l’industria farmaceutica è nel bussiness della vendita di farmaci, essi apprezzano ogni aiuto che ricevono, e la maggior parte ritiene che c’è una sana, simbiotica, relazione tra essi e l’industria. Essi si offenderanno certamente di qualsiasi critica insinuante che il supporto che ricevono (e desiderano continuare a ricevere) dall’industria influenza il loro giudizio su molti punti. Però, è opinione della maggior parte di coloro che hanno studiato questa situazione, l’influenza c’è ed è sostanziale, per quanto spesso sottile. Quelli che hanno le sovvenzioni più ampie hanno anche più ampi contatti col personale delle compagnie farmaceutiche e sono i più esposti agli argomenti, alle evidenze, ai punti di vista sostenuti dalle compagnie riguardo ogni punto controverso. Per mia esperienza, coloro sono stati i ricevitori di più ampi benefici dall’industria, tendono ad essere i più inflessibili nel negare la possibilità di qualsiasi influenza. Ma costoro sono spesso anche le personalità a cui si chiede una opinione autorevole che poi influenzerà l’opinione pubblica circa la industria farmaceutica e i farmaci. L’influenza dell’industria farmaceutica è così pervadente che risulta quasi invisibile.

Tutte le compagnie preferiscono “ottener l’utile mentre fanno il bene” ma il loro sommo bene è fare affari.

L’obbiettivo del profitto non è secondario per nessuna compagnia, non lo è nemmeno per le compagnie farmaceutiche. Un recente ed attraente fondo d’investimento messo sul mercato da una delle maggiori compagnie farmaceutiche, annunciava che il suo “obbiettivo permane di incrementare i suoi guadagni del 20% nel 1997 e nel 1998” Quando ho sostenuto che le compagnie farmaceutiche sono differenti dalle altre compagnie perché esse hanno a che fare con la salute pubblica, ho ricordato una serie di incidenti, quale che una delle maggiori compagnie farmaceutiche Usa si è accordata a pagare una multa di 325 milioni di dollari quando fu accusata di frode per aver truffato lo stato circa tests di laboratorio mai ordinati e in molti casi nemmeno mai fatti.8

La posta in palio è enorme e le risorse che le compagnie farmaceutiche possono investire per far avanzare e per proteggere i propri interessi sono adeguate. L’incasso annuale per la vendita di un singolo farmaco può ammontare ad alcuni bilioni di dollari. Con simili cifre in gioco, le compagnie farmaceutiche stanno costantemente ad esplorare nuove vie per aumentare le vendite e per proteggerle quando sono minacciate dalla competizione o da pubblicazioni negative. Come qualsiasi grande corporation, le compagnie farmaceutiche prestano la massima attenzione ai modi di promozione dei loro prodotti e ai modi di protezione dei propri interessi. Non dovremmo sorprenderci, pertanto, a venir a sapere che il direttore commerciale dei farmaci della Merck, prima promuoveva le bevande analcoliche e il cibo alla PepsiCo.La linea tra l’ottenere il miglior “far girare” un prodotto e il “piegare” una verità è spesso molto sfocata. Sarebbe molto ottimistico credere che le compagnie che vendono i cosiddetti farmaci (prescrizioni) “etici”, una volta che si presentino sul mercato siano più o meno etiche di qualsiasi altra compagnia commerciale.

L’influenza dell’industria farmaceutica è cresciuta fortemente anche perché le sue enormi risorse sono concentrate in poche mani, come risulta da molte recenti fusioni. Tra le più importanti fusioni c’è stata quella tra la Compagnia Upjohn del Michigan con Pharmacia A.B. svedese a formare Pharmacia & Upjohn. Che ora si è fusa con Amersham International, una ditta inglese di tecnologia medica, creando Amersham Pharmacia Biotech. Anche, la holding Glaxo si è fusa con la Wellcome a formare la Glaxo Wellcome, mentre la Ciba-Geigy, che era il risultato della fusione tra Ciba e Geigy, si è unita alla Sandoz a formare Novartis A.G., ora la più grande compagnia farmaceutica del mondo. Nel 1995 il gigante farmaceutico svizzero Roche (imparentato a Hoffman La Roche inc.) ha acquistato la californiana Syntex Corporation, e nel 1997 essi hanno acquistato la Boehringer Mannheim, una compagnia tedesca. Mentre sto scrivendo, ci sono voci nella comunità finanziaria di altre fusioni tra società farmaceutiche.

Un’altra recente tendenza, che riguarda un tipo di fusioni che concentra ancor più il potere, è il rilevare da parte delle compagnie farmaceutiche la proprietà di cliniche che prescrivono farmaci. Recentemente la compagnia farmaceutica inglese Zeneca ha rilevato la direzione di undici cliniche per il cancro, alcune localizzate in importanti centri ospedalieri Usa. La possibilità che una compagnia possa controllare sia la prescrizione che la manifattura di farmaci ha sollevato giustificate preoccupazioni. Per quanto per ora non sia ancora avvenuto che ci sia il controllo di cliniche psichiatriche importanti da parte di industrie farmaceutiche, la possibilità che ciò possa avvenire sta aumentando. I pericoli sono ben evidenti, come ha sottolineato Arthur Caplan, un bioetico della Università della Pennsilvania:

Penso che avremo molti casi come questi in futuro, e la domanda da porsi è quali tipo di scelte e contrappesi debbano essere messi in azione. Che il tuo dottore, la tua clinica, la tua farmacia, il tuo laboratorio di analisi, siano tutti in mano alla stessa persona, non è certo una struttura ottimale per la cura della salute.

Le teorie chimiche della malattia mentale sono molto seducenti perché sostengono che esiste una spiegazione abbastanza semplice per problemi che sono sempre stati ritenuti aggrovigliati e spesso caparbiamente resistenti ai trattamenti. Stiamo vivendo in un tempo che ha poca tolleranza per incertezze ed ambiguità. Proposte che in altri tempi sarebbero state respinte come avventate, sono ora accettate con grande credulità. Coloro che scrivono libri popolari, sono a conoscenza della voracità della gente per idee e mezzi di autopotenziamento, sia in forma di congegno per ottenere un fisico da atleta, sia in forma di pillole per perdere peso o per acquistare una migliore personalità. Nell’ultima decade, c’è stato un profluvio di libri popolari che non solo hanno esagerato la capacità di farmaci di curare i disordini mentali, ma anche spesso proclamato che ora ci sono nuovi farmaci che possono produrre modifiche “cosmetiche” di personalità, aggiustando il bilanciamento tra pochi critici neurotrasmettitori.

Un libro scritto da Ronald Kotulak, premio Pulitzer per la divulgazione scientifica e ex presidente dell’Associazione Nazionale degli Scrittori di Scienza, è tipico tra i molti libri che proclamano che la personalità ed il comportamento possono essere spiegati in termini di modificazioni di uno o due neurotrasmettitori. Le straordinarie scoperte di Kotulak di come funziona la mente sono fondate sul proclama che gran parte della personalità e i principali tratti caratteristici del comportamento sono determinati dal bilanciamento tra la serotonina e la norepinefrina. Kotulak sostiene che quando i livelli di norepinefrina sono alti ciò produce atti di violenza “impulsivi a-sangue-caldo”, mentre bassi livelli di norepinefrina producono “atti di violenza premeditati, a sangue freddo” e ricerca del brivido. Un alto livello di serotonina, invece, sostiene che produce un aumento di timidezza, disordini ossessivo-compulsivi, mancaza di autostima, e “un’ingiustificata attenuazione dell’aggressività”, mentre un basso livello di serotonina, proclama, crea tendenza alla depressione, al suicidio, all’alcolismo, ad esplosioni di rabbia, a devianza sessuale, ad aggressività impulsiva.

Il sostenere che tutte queste propensioni di comportamenti differenti sono spiegate dai livelli di due neurotrasmettitori, trascurando tutte le altre variabili sia psicosociali che biochimiche, è del tutto ingiustificata. La sola evidenza di tutti questi proclami sono alcune “deboli” tendenze rilevate in medie di gruppo su un numero piuttosto basso di soggetti. La letteratura clinica e sperimentale su questo, quanto a validità e ripetibilità, è una tal palude che è possibile trovare studi che supportano qualsiasi teoria che si sia sognata e si desideri promuovere. Inoltre, c’è a questo proposito un pregiudizio rispetto la letteratura scientifica, dove tendenze non successivamente confermate difficilmente sono pubblicate come studi [quindi prese in considerazione, ndt], mentre secondo i media popolari anche “deboli” tendenze possono essere descritte come “scoperte rivoluzionarie”. Il proclamare che complessi tratti mentali e della personalità possano essere spiegati con il bilanciamento di una coppia di neurotrasmettitori, non è più valido della teoria di Ippocrate che sosteneva che molti di questi stessi tratti fossero determinati dal bilanciamento dei quattro umori base: sangue, flemma, bile scura, bile gialla. Tuttavia molti di questi simili recenti proclami sono accettati come veri e i libri che sostengono questo contribuiscono ad aumentare la convinzione che la personalità e la salute mentale siano completamente determinati dai livelli di pochi neurotrasmettitori, livelli che possono essere aggiustati da farmaci.

Per le ragioni ora date e per le altre aggiuntive ragioni sparse nel libro, ora io ritengo che non solo non è stato stabilito che squilibri biochimici siano la causa principale dei disordini mentali, ma che anche la teoria da cui provengono queste idee possa essere sbagliata. Tale teoria è stata così ampiamente accettata perché parecchi gruppi di persone, ciascuno come proprio obbiettivo, ha promosso questa idea, spesso esagerandola e distorcendo quel che effettivamente si sa sui disordini mentali e sulla efficacia e sicurezza dei farmaci usati per trattarla.

Ci sono così tanti e diversi interessi coinvolti a sostenere le diverse teorie biochimiche del disordine mentale, che posso già anticipare che la tesi di questo libro sarà criticata in altrettanti diverse direzioni. Benvengano queste critiche, spero siano fatte in maniera costruttiva, dato che finora non c’è mai stata nessuna disputa riguardante le assunzioni di basi soggiacenti queste teorie biochimiche. Col mettere in discussione le assunzioni di base, non intendo mettere in discussione se questo o quello sottotipo di ricettore sia la causa della schizofrenia o della depressione. Invece, spero che questo libro possa aiutare a iniziare un dibattito su quando e come uno squilibrio chimico è stato realmente osservato e su quanto e come noi effettivamente sappiamo che gli psicofarmaci aiutino ad alleviare tali disordini.

Molti appunti potranno essere sollevati circa l’evidenza e gli argomenti presentati in questo libro. Non mi è possibile anticipare le risposte, e d’altronde sarebbe una specie di esercizio di “lotta con l’ombra”, ben più facile che lottare sul ring con un vero avversario. Può essere utile, comunque, rispondere ad una coppia di critiche che sono certo mi saranno fatte.

Una sarà probabilmente che se nel passato le evidenze non sono state convincenti, però ora ci sono esperimenti e teorie recenti che supportano le teorie biochimiche e questo libro non le ha prese in seria considerazione. La mia risposta sarà che ho fatto un serio sforzo di prendere in considerazione quel che è stato giudicato più importante nelle recenti teorie, ma ciò non ha cambiato le mie conclusioni di fondo. Certamente non posso giudicare anticipatamente gli sviluppi futuri, ma ritengo di aver fatto un serio sforzo di prendere in coinsiderazione le ultime revisioni delle teorie biochimiche delle malattie mentali, e nessuna di queste mi ha convinto di modificare le mie conclusioni fondamentali.

Ci sarà poi probabilmente la critica che mi accusa di irresponsabilità perché scoraggio le persone che soffrono di malattie mentali andando ad investigare su farmaci che malamente li aiutano. Io ho affermato più volte che sono convinto che certe persone hanno ricevuto un aiuto significativo dagli psicofarmaci, e certamente non voglio scoraggiare nessuno dal prenderle. È possibile che alcuni lettori, che sono già riluttanti a prendere farmaci “alteranti la mente”, diventino critici del proclama che la medicina a loro prescritta agisca come fa l’insulina col diabete. Ma io ritengo che un tale effetto, ammesso ci sia, sia minimo. Quando un paziente ha fiducia nel suo medico, è sufficiente di solito che si dica loro che numerosi pazienti in condizioni molto hanno guadagnato dalla medicazione, e che si tratta in ogni caso di un tentativo valido. Una spegazione teorica di come si suppone il trattamento agisca è raramente necessaria e se il paziente insiste a chiederla, non si deve assumere in partenza che egli deciderà per il no solo perché gli si dice che “noi in realtà non sappiamo”. Un paziente può anzi aver più rispetto per un medico che si senta abbastanza sicuro di sé da dichiarare che non si sa.

Una migliore sfida critica a questo libro è che il vero punto non è se le teorie biochimiche del disordine mentale siano giuste o sbagliate. Infatti è stato da tempo argomentato che il vero punto è se gli psicofarmaci agiscano o meno e non se le teorie siano corrette. Questo è quanto significa il vecchio detto: “Leggi queste pazze teorie, se ti piace. Ma la fiducia và alle cifre e ai fatti”. Le teorie vanno e vengono ma, ma quel che è veramente importante è se i trattamenti agiscano e siano sicuri. Molti esempi si possono fare per sostenere questa argomentazione. Ad es. la capacità dell’aspirina di alleviare il dolore, la febbre, l’infiammazione, non è stata alterata dal fatto che per molto tempo le teorie proposte a spiegare la sua azione sono state o inadeguate o errate. Come un critico ha detto sarcasticamente: “Non è tanto importante di come e qualmente agiscano nella pratica, quel che è importante è che non dovrebbero funzionare nella teoria”. Certamente i risultati pratici non possono essere screditati dal fatto che non ci sia una teoria che li spieghi. Ciononostante sono convinto che c’è un equivoco che deteriora la teoria, e che questo abbia enormi conseguenze pratiche. La teoria e la pratica non sono indipendenti una dall’altra e questo è particolarmente vero nel caso degli psicofarmaci e delle teorie biochimiche del disordine mentale, come illustrerò nelle rimanenti pagine di questo capitolo.

L’accettare le teorie biochimiche del disordine mentale è credere che questi disordini siano causati da squilibri chimici e che i farmaci siano efficienti perché correggono la sottostante origine chimica dei disordini. Accettare questa versione forte della teoria ha conseguenze significative su come i pazienti sono trattati, sulle professioni della salute mentale, e per la ricerca di base. Non avendo scritto questo libro per dar consigli né a nessun gruppo né a nessun individuo, spero che ci sia una discussione responsabile sulle implicazioni pratiche delle conclusioni qui raggiunte.

Sono d’accordo che la validità delle teorie chimiche del disordine mentale non può essere presa a base per respingere o accettare le terapie farmacologiche. Accordateci su questo punto è però necessario aggiungere che l’efficacia dei farmaci psicoterapeutici è considerevolmente inferiore a quanto comunemente asserito. L’efficacia degli psicofarmaci è consistentemente esagerata, spesso presentando aneddoti di persone che appaiono “miracolosamente” guarite dopo aver cominciato ad assumere il farmaco. Alcune di queste storie sono certamente vere, ma tuttavia non sono rappresentative perché se non c’è un controllo sperimentale, non sappiamo di che cosa è effettivamente responsabile del miglioramento. La storia medica è piena di esempi di come è facile ingannarsi quando si fa generalizzazioni di storie annedottiche. Sappiamo da numerosi studi che un numero significativo di persone con disordini mentali migliora senza affatto trattamenti. In un recente libro sui farmaci antidepressivi, per es., è stato rilevato che:

Il settanta percento di tutte le persone che prendono gli antidepressivi riferiscono un miglioramento, intendendo che hanno una riduzione di almeno il 50% dei loro sintomi. Ma questo va paragonato al 40% dei miglioramenti in chi prende un placebo.
Questo significa che solo il 30% del miglioramento è imputabile all’azione del farmaco e che si tratta di un miglioramento parziale. Anche con gli ulteriori nuovi farmaci ora disponibili, c’è sempre un numero ragguardevole di pazienti che non è aiutato da nessuno di essi. Non solo le cifre citate usualmente esagerano la percentuale di persone felicemente aiutate dal trattamento farmacologico, ma in più si attribuisce al farmaco i meriti di tutte le guarigioni.

Si vanta che i pazienti tollerano i nuovi farmaci meglio perché quest’ultimi producono minori effetti collaterali. Però ogni farmaco ha effetti collaterali indesiderati e noi non possiamo sapere quali effetti collaterali produrranno i nuovi farmaci, almeno finché non saranno in uso per un adeguato numero di anni. C’è inoltre il problema delle ricadute. Per alcune situazioni di disagio mentale, fino al 50% dei pazienti che è migliorata [ndt: nell’originale c’è ’improve’ che è più che migliorare, meno che guarire] con il trattamento farmacologico, ha un ritorno alla situazione di disagio. Si raccomanda comunemente che i pazienti siano tenuti sotto farmaco per otto mesi o più. Ma la possibilità di seri e permanenti effetti collaterali per trattamenti prolungati non può essere trascurata. Per dare una forma più realistica all’argomento, non è qui il caso di una buona soluzione pratica che manca di una spiegazione teorica, ma piuttosto il caso di una tutt’altro che soddisfacente soluzione pratica che è stata spinta avanti energicamente, anzi troppo vigorosamente, grazie ad una teoria pesantemente promossa che è stata accettata acriticamente.

Se i terapisti sono persuasi che gli squilibri psichici sono l’unico fattore che deve essere considerato per trattare i disordini mentali, essi trascureranno altri fattori che possono giocare un ruolo ugualmente, o anche maggiormente, importante. Aumentare: la direttiva data agli psichiatri è di tentare una dose iniziale normale di farmaco, se esso non si dimostra efficace dopo un adeguato periodo, aumentare la dose. Se nemmeno ora si riscontra efficacia, la direttiva è di provare un farmaco differente della stessa classe. Un caso che è stato ben presente all’autore aiuterà a spiegare meglio il punto:

Un ricercatore biochimico altamente produttivo e creativo, che è stato collega e collaboratore dell’autore, incominciò a sviluppare i sintomi classici del disturbo maniaco-depressivo. Ebbe periodi di grande energia e produttività, comportanti poco sonno e ancora di meno, ma gradualmente il suo comportamento divenne sempre più inappropriato, irrealistico, talvolta del tutto bizzarro. Questo ciclo fu ripetuto numerose volte ed era regolarmente seguito da un periodo di disforia in cui i suoi pensieri giravano al nero. In tale punto era regolarmente aggressivo, verbalmente e fisicamente, e il suo modo di guidare l’automobile era chiaramente pericoloso a sé e agli altri. Quasi ogni notte egli “precepitava” in una profonda depressione e diventò quasi totalmente immobile e con pensieri suicidi. Il litio e altri stabilizzatori d’umore furono tentati a dosi diverse, ma al massimo essi fornivano solo un minimo aiuto; il ciclo maniaco-depressivo si ripeteva periodicamente senza diminuzione dell’intensità dei cambiamenti d’umore. Fu ospedalizzato diverse volte e fu trattato pressoché esclusivamente con farmaci stabilizzanti dell’umore, ma senza miglioramento significativo del suo stato.

Alla fine uno psichiatra incominciò a fare attenzione al coincidere questi episodi maniaco-depressivi con le lunghe ore di lavoro in laboratorio e con gli inevitabili successi e insuccessi che inevitabilmente conseguono ad ogni attività di ricerca. C’era probabilmente una predisposizione soggiacente, per quanto non manifestata nei sei anni precedenti in cui siamo stati colleghi. Giudicando quando questi episodi maniacali iniziavano, apparve plausibile che certi eventi ambientali potessero far scattare, o almeno esacerbare, il cambiamento d’umore. Dopo aver discusso il problema con lo psichiatra, il mio collega fu d’accordo a cercare di risistemare la sua vita in modo da limitare la sua attività di ricerca e di passare a fare un molto più previdibile lavoro di base di supervisione di test biochimici in un laboratorio medico. Fu anche raccomandata e prescritta una più bassa dose di litio, nonostante che questa stessa dose fosse stata prima del tutto inefficiente. Ovviamente questa è una storia personale, del tipo degli aneddoti, e non è in grado di provare nessuna relazione di causa ed effetto, ma nei seguenti cinque anni, con il cambiamento della vita e associato i trattamenti di litio, l’umore del mio collega risultò finalmente stabilizzato.

Questo caso riguarda un paziente che è stato probabilmente aiutato da entrambi gli agenti, il farmaco e la psicoterapia. Ci sono pazienti che sono stati aiutati da psicoterapia o consultazione senza farmaci, altri pazienti sono stati aiutati dal solo farmaco. Kay Jamison, nel suo libro Una Mente Inquieta , descrive come il litio l’ha aiutata a stabilizzare i suoi sbalzi di umore, ma anche aggiunge che probabilmente sarebbe morta se non ci fosse stata la psicoterapia.13 Il problema che si deve avere di fronte è che gli psichiatri sono progressivamente pressati a fare affidamento sempre di più su farmaci e sempre meno ad riservare del tempo a tentare di guardare fattori psicologici, relazioni interpersonali, ed accadimenti dell’ambiente di vita che spesso giocano un ruolo principale nello sviluppo e nell’esacerbazione di disordini mentali. Convengo, non è affatto facile come nel caso soprariportato trovare una via praticabile ed efficiente che aiuti il paziente a ristrutturare la sua vita. Spesso è necessario per tentare di aiutare un paziente che egli cambi sia alcuni molto persistenti modi di pensiero, che alcuni ancor più intrattabili modi di vita. Però è una disgrazia che molti di coloro che promuovono i pregi dei farmaci, trovi necessario deprecare l’efficacia sia della psicoterapia che della consultazione.

Questo usualmente è il risultato dell’aver contrastato il trattamento con farmaci con una caricatura di terapia psicoanalitica, in cui alcune sessioni settimanali sono continuate per anni, visibilmente senza nessuna fine in vista e nessun dimostrabile beneficio. La psicoterapia è descritta come un modo di vita, comunemente ridicolizzata col riferirsi ad essa come il trattamento “newyorkese” per la sindrome “Woody Allen”. Quel che si sottostima di proposito è che molte psicoterapie di oggi non hanno rassomiglianza con questa parodia.

Se la ansietà, le fobie, i disordini di panico, la depressione, la mania, le ossessioni, l’abuso di sostanze, ed altri disordini mentali sono visti come il riflesso di soltanto una biochimica anormale del cervello, allora i contenuti psicologici e le esperienze di vita saranno prossimi ad essere considerati come irrilevanti. È stata una fortuna, a mio avviso, che in passato ci sia stata così tanta enfasi ad andare a scovare le radici antiche dei conflitti intrapsichici e il significato nascosto dei sintomi, così ora la maggior parte delle psicoterapie sono concentrate meno nel passato e più nell’esplorare vie per stabilire più salutari attitudini mentali e stili di vita per persone aventi predisposizioni dannose. Ci sono evidenze convincenti che molte delle forme brevi di psicoterapia e consultazione possono, in condizioni paragonabili, essere altrettanto se non più efficaci e più brevi dei trattamenti con farmaci. C’è anche evidenza che la psicoterapia e la terapia comportamentale spesso aumentano l’efficacia dei trattamenti con farmaci. Purtroppo agli studenti in psichiatria è offerta sempre meno corsi d’insegnamento di una qualsiasi forma di psicoterapia e invece si impiega un tempo sempre più grande a far studiare i farmaci e la neurofarmacologia. Il numero degli studenti di medicina che desiderano diventare psichiatri è in diminuzione e le manifestazioni di disaffezione rispetto tale professione sono in aumento. Uno studente di psichiatria ha chiarito: “non ho scelto questa specializzazione per distribuire farmaci come un farmacista”, ma questa è sempre più la strada in cui gli psichiatri hanno spinto la loro professione, e sempre più la strada in cui i loro pazienti vedono loro.

In molte situazioni, il trattamento di chi ha disordini mentali è sempre più influenzato, se non dettato, dalle organizzazioni assistenziali della salute, parecchie delle quali sono grosse corporazioni capitalistiche. Le Organizzazzazioni Assistenziali della Salute esercitano pressione perché si faccia affidamento sempre più nei farmaci e si limiti il tempo di contatto con i pazienti. In molte situazioni, non è concesso il tempo necessario per sapere qualcosa della vita dei pazienti. Non si è ancora raggiunto il punto in cui il tempo concesso per il dottore per decidere il trattamento sono determinati da risultati di studi di “tempo e metodo” [quelli dell’industria fordista, ndt], ma spesso sembra che non si sia distanti. Come ha recentemente commentato un noto psichiatra:

Che cosa stia realmente trasformando la situazione è il modo in cui la cura della salute mentale è in via di ristrutturazione ad opera delle enormi compagnie di assicurazione e cura della salute - che pagano i medici solo per assegnare farmaci. Essi forniscono una cassa-malattia di 10/15 minuti col paziente una volta al mese per controllare il trattamento farmacologico. Non pagano a sufficienza per una psicoterapia. La quale si può avere solo per chi è in grado di pagare di tasca propria il tempo in più. L’immagine della professione psichiatrica è diminuita di molto. Gli studenti americani girano alla larga dalla psichiatria per i guadagni bassi e perché non vogliono solo fornire psicofarmaci.
Leon Eisemberg, professore di medicina sociale alla Harvard Medical School, ha commentato che “l’imprenditoria privata sulla salute e i farmaci antipsicotici, costituiscono una miscela satanica“ Comunque, questo è solo una parte del problema: Sempre di più la pratica psichiatrica è controllata da due potenti forze di mercato: Da un lato le Organizzazioni Assistenziali della Salute esercitano pressione perché si confidi solo sui farmaci; dall’altro lato la maggior parte delle informazioni sui farmaci sono fornite dall’industria farmaceutica.

In un discorso fatto nel 1986, Morton Reiser, uno psichiatra della Facoltà di Medicina alla Yale University, ha espresso il suo timore per il poco interesse che molti psichiatri interni mostrano avere circa il conoscere i loro pazienti:

Ho parlato con alcuni interni e trovato che il loro assetto mentale e il loro approccio nelle interviste [dei pazienti] era sbalorditivamente non psicologico. Non appena essi identificano e trovano nel “repertorio” DSMIII i sintomi di base sufficienti per una terapia farmacologica, il lavoro diagnostico e una utile comunicazione sono stoppati. Ancor peggio, ai miei occhi, il non esserci stata alcuna curiosità da parte degli interni sui pazienti come persone - fino al punto che spesso non c’è stata alcuna domanda su questioni importanti quali il come e perché sono giunti in trattamento e quali preoccupazioni lui o lei avesse. La maggior parte di questi interni potrebbe aver conosciuto di più su un estraneo seduto a loro fianco per un’ora in un viaggio aereo, di quanto hanno conosciuto dei loro pazienti in queste formali interviste psichiatriche.16

Nel 1983, Lewis Thomas, a proposito di questo stesso problema ma per la medicina in genere:
Le più lunghe e più personali conversazioni fatte dai pazienti quando giungono all’ospedale riguardano soldi ed assicurazione, e sono fatte col personale di ragioneria dell’accettazione.
Ci sono molte ragioni per ritenere che questo problema sia diventato ancor più spinoso adesso.

Quando iniziai a progettare questo libro, avevo pianificato di descrivere le variazioni che si sono avute nel percorso delle persone etichettate con disordini mentali, quali sono i migliori trattamenti, e i fattori responsabili delle variazioni. Andando avanti, mi resi conto che era anche importante valutare le evidenze e gli argomenti che sostengono la teoria ora prevalente che ritiene che i disordini mentali siano causati da squilibri chimici correggibili con farmaci. Ho concluso che questa teoria, che sta guidando gran parte della pratica clinica e i nostri sforzi di ricerca, non è supportata da evidenze e può perciò ben essere errata. Tuttavia per ragioni che poco hanno a che fare con la scienza, si sta proseguendo inflessibilmente su tale teoria su una pista piena di molti pericoli. È stato come andare su una nave priva di guida nautica, spinta avanti da un motore potente, in un mare con molti scogli non segnalati.

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